Il Reddito di inclusione produce esclusione e working poor – Il Salto

*Tiziana Barillà

Ha un grosso problema di quantità e di qualità, il Reddito di inclusione che il Senato ha appena approvato e che prenderà il via il primo gennaio 2018. Fosse solo il fatto che è insufficiente a coprire i quasi cinque milioni di italiani in povertà assoluta, si potrebbe dire: meglio di niente. Ma il problema è che la misura prevista e introdotta dal governo non solo non ha niente a che vedere con alcuna forma di “reddito minimo” – a dispetto del nome che porta – ma rischia di diventare l’ennesimo assist per la produzione di altro e nuovo lavoro povero. Quello che salta agli occhi, numeri a parte, sono le attività para lavorative previste in cambio del beneficio economico. Ma la povertà – è il caso di chiedersi – è un debito nei confronti della società? O è piuttosto la conseguenza del processo di redistribuzione del reddito e della ricchezza? Domanda retorica, cos’altro può essere la povertà se non l’effetto collaterale delle politiche economiche e sociali adottate da un paese.

Troppi pochi soldi. Il Rei è insufficiente, perciò esclude
A dispetto della realtà rappresentata in tv – ieri alla trasmissione In Onda Pippo Civati è stato il solo a pronunciare la parola “povertà” – l’Italia conta quasi 5 milioni di persone in stato di povertà assoluta: 1 milione e 619mila famiglie in assoluto. Senza contare, poi, che altri e 2 milioni e 734mila famiglie vivono in condizioni di povertà relativa, appena sopra la soglia della sopravvivenza.
“Un passo in avanti rispetto alle tante misure parziali introdotte negli ultimi anni, ma è ancora una misura basata su condizioni categoriali arbitrarie: presenza in famiglia di un componente minore oppure di una persona con disabilità, di una donna in gravidanza o di un disoccupato con più di 55 anni. Queste condizioni riducono la spesa ma possono finire per escludere molte persone bisognose di aiuto”. Lo ammette anche Tito Boeri, presidente dell’Inps che questa misura è assai debole e arbitraria. Con il miliardo e 700 milioni di euro previsti dal Rei, solo il 30% dei cittadini in povertà assoluta riuscirà a ricevere le circa 400 euro al mese a famiglia, una media di circa 120 euro a persona. Così, il 70% di chi avrebbe diritto a questa misura ne rimarrà fuori. Per finanziare un sussidio contro la povertà, servirebbero circa 7 miliardi di euro all’anno, per un reddito minimo ne servirebbero almeno 14-21 di miliardi.

Non è un “reddito minimo”, anzi
La confusione genera confusione. Così tra le tante definizioni e i tanti acronimi, si finisce per chiamare le cose con i nomi degli altri. Ma il Rei non ha niente a che spartire con il Reddito Minimo Garantito, né tantomeno con un Reddito di Cittadinanza. Forme universali quali quelle del reddito minimo andrebbero erogate su base individuale (e non familiare), proprio perché il fine è quello di promuovere l’autodeterminazione dell’individuo e la sua emancipazione dal nucleo familiare. L’importo, poi, dovrebbe aggirarsi tra i 500 e i 700 euro al mese, a individuo, una cifra che “liberi” almeno un po’ da quel ricatto del lavoro povero o del tutto gratuito al quale altrimenti si va incontro. Infine, un “reddito minimo” non deve in alcun modo essere condizionato allo svolgimento di attività paralavorative, formative sì certo ma non paralavorative. Il Rei, invece, prevede l’inserimento in progetti personalizzati predisposti da “un’équipe multidisciplinare” per svolgere lavori che si presumono socialmente utili da offrire in cambio del beneficio economico. Sì, in cambio del beneficio economico. Ma la povertà – torniamo ancora a chiederci – è un debito nei confronti della società? O è piuttosto la conseguenza di un processo di redistribuzione del reddito e della ricchezza e di politiche economiche e sociali? Ecco perché il rischio che il Rei diventi l’ennesimo espediente per produrre working poor non è così lontano – l’ennesimo, fa notare Sbilanciamoci che spiega bene tutti i termini della misura. Come Garanzia Giovani, come il Servizio civile, come i tirocini. Eppure la Cgil, il sindacato delle lavoratrici e dei lavoratori, non sembra troppo preoccupata, si dice critica sì – “ancora insufficiente” – ma si dice fiduciosa e auspica “un adeguamento progressivo del finanziamento, già con le prossime manovre finanziarie, per rendere il Rei una misura effettivamente universale che copra l’intera platea delle persone aventi diritto, senza alcuna discriminazione”.

Con i tagli al welfare, Rei ancora meno efficace
“Una misura che nasconde i tagli per centinaia di milioni di euro fatti alle politiche sociali proprio in questi giorni”. È netto Giuseppe De Marzo della Rete dei numeri pari. I tagli a cui de Marzo fa riferimento sono i 211 milioni di euro tolti dal fondo per le politiche sociali (passato da 311 a 99 milioni) e i 50 milioni da quello per la non autosufficienza (ridotto da 500 a 450). Siamo diventati il paese più diseguale dopo la Gran Bretagna, con il peggior sistema di welfare insieme alla Grecia. Diverse risoluzioni europee hanno condannato il nostro paese proprio per i tagli al sociale e per l’assenza di una misura adeguata di sostegno al reddito”.

Un Reddito minimo per davvero, insomma, ci vuole. E la battaglia per averlo non è ancora finita.
La proposta di Reddito di Dignità, avanzata dalla Rete dei Numeri pari e poi fatta propria dal M5s, da Si e da diversi deputati del Pd, non è stata nemmeno discussa in Parlamento.

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