Istat, in Italia la dote familiare è ancora «determinante» per reddito e lavoro dei figli.

Coltivare reti sociali robuste, istruzione e conoscenza sono le leve di riscatto a disposizione di un Paese in declino e sempre più vecchio.

 

Ormai dal 2015 l’Italia è in declino demografico: la popolazione residente ammonta a 60,5 milioni di residenti (5,6 milioni sono stranieri, l’8,4%, ovvero diminuisce di quasi 100 mila persone rispetto al 2017. Il Rapporto annuale 2018 appena pubblicato dall’Istat mostra però un Paese dove non solo la popolazione s’assottiglia, ma soprattutto invecchia. Per il nono anno consecutivo le nascite registrano una diminuzione, mentre l’età media delle donne alla nascita del primo figlio è passata dai 26 anni del 1980 ai 31 anni del 2018; con 168,7 anziani ogni 100 giovani, l’Italia è oggi è il secondo paese più vecchio del mondo dopo il Giappone. Una trasformazione ancora in corso che non solo ha profondi impatti sulle possibilità di crescita del Pil o sui bilanci pubblici che finanziano il welfare, ma soprattutto sulle dinamiche stesse di un sistema-Paese che ancora oggi vede nella famiglia il suo nucleo fondamentale.

«Una famiglia che si restringe – dettaglia l’Istat – riduce l’ampiezza delle reti familiari. Quando i centri minori perdono popolazione e chi resta invecchia, si assottigliano le reti di vicinato. Nelle città che si riorganizzano nelle loro funzioni, separando un centro terziarizzato e destinato allo shopping e al divertimento dalle aree destinate alle funzioni residenziali, le possibilità di relazione si fanno più selettive e si spostano dai luoghi dell’abitazione e del lavoro a quelli della cultura e del tempo libero nelle sue diverse declinazioni». E l’assottigliarsi delle reti può comportare, dal punto di vista degli individui, un «maggiore rischio di isolamento».

La più importante di queste reti continua ad essere la famiglia, non solo per gli affetti ma anche per le prospettive di successo individuale, con tutti i pro e contro che quest’assetto sociale può comportare: «Nei paesi con sistemi di welfare tipici del sud Europa – osserva infatti l’Istat – il ruolo di parenti e amici è particolarmente rilevante e i livelli di cittadinanza attiva sono più bassi. Il contrario accade per i paesi con regimi di welfare socialdemocratico e conservatore-corporativo. Anche il livello di istruzione e il reddito sono associati alla partecipazione sociale», e in Italia in particolar modo alla dote lasciata dalla famiglia d’origine. Con buona pace dell’ascensore sociale, la «solidità economica della famiglia è determinante nella scelte di vita, scolastiche e lavorative dell’individuo».

L’eguaglianza sociale richiede la possibilità di realizzare i propri progetti di vita, e si lega all’analisi delle disponibilità individuali, ma la dote familiare individuale – calcolata dall’Istat in funzione dell’istruzione dei genitori, della loro posizione professionale e del titolo di godimento dell’abitazione – ha effetto «in tutti questi ambiti, creando posizioni di vantaggio o svantaggio relativo. Queste risorse sono una dote che si riceve per nascita, e si traduce in termini positivi (opportunità) e negativi (vincoli)». Alimentando la disuguaglianza, nel caso nazionale: «Si è potuto verificare – argomenta ancora l’Istat – come il livello professionale dei genitori, il loro titolo di studio e il titolo di godimento dell’abitazione siano correlati significativamente con il reddito dei figli a distanza di anni». In particolare, il 43,5% degli italiani risulta avere una dote familiare individuale “bassa”, il 48,2% “media” e solo l’8,4% “alta”.

Concretamente questo significa ad esempio che il 26,5% di coloro che hanno una dote familiare alta consegue un titolo di studio universitario, dieci punti in più rispetto a chi ha dote bassa, mentre nel 29,2% dei casi giunge a ricoprire il ruolo di dirigente, quadro, imprenditore o professionista. Ecco che «i vincoli economici e culturali sono di ostacolo alla realizzazione delle pari opportunità per chi parte da situazioni più svantaggiate».

Certo, le eccezioni alla regola fortunatamente esistono. Nonostante la dote familiare bassa, il 18,5% degli individui ottiene un titolo di studio universitario e il 14,8% occupa una posizione lavorativa qualificata. Soprattutto, il 34,9% può comunque contare su una rete di sostegno che comprende l’insieme più ampio di soggetti considerati (parenti, amici e vicini).

È alimentando queste reti sociali, coltivando solide amicizie o la formidabile leva del volontariato, che il ruolo dell’individuo nella società ritrova fiducia e valore e – insieme a istruzione e conoscenza – ritrova una possibilità di riscatto. Da una parte «l’istruzione e la formazione del capitale umano sono lo strumento per rimuovere gli impedimenti alla parità delle opportunità e il vettore primario di promozione sociale», mentre dall’altra «le reti di relazione, qualunque sia l’ambito in cui vengono osservate, non comportano soltanto vantaggi isolati, ma si cumulano e si agglomerano, tanto che è possibile parlare di un potere moltiplicatore delle reti e di reti al quadrato o al cubo. I vantaggi delle risorse relazionali – conclude l’Istat – si estendono oltre i confini dell’individuo e della sua famiglia, stimolano il senso di appartenenza, promuovono il senso civico e favoriscono la fiducia interpersonale e verso le istituzioni, con effetti importanti sulla società nel suo complesso».

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