Green virus

Paolo Cacciari

15 Febbraio 2020

Il disastro climatico è talmente grave che bisognerebbe accogliere l’annunciato European Green Deal esclamando “finalmente qualcosa si muove”. Tuttavia, una lettura attenta dimostra che quella di Bruxelles è solo un’odiosa pubblicità ingannevole, con cui si apprestano a spostare un mucchio di soldi verso nuovi business green friendly. Si punta a “innovazioni pionieristiche”, non a ridurre le emissioni o ad aumentare le capacità della fotosintesi clorofilliana di catturare naturalmente CO2. “Dovremmo solo chiederci se la crescita dei fatturati, dei profitti e della redditività delle imprese di capitale – scrive Paolo Cacciari – rappresenti la soluzione alle necessità del pianeta e dei suoi abitanti, o se invece non siano la prima causa dei loro problemi”

Il Parlamento Europeo a stragrande maggioranza, il mese scorso, ha dato via libera alla Comunicazione dalla Commissione Europea sul Piano di investimenti per un’Europa sostenibile. Si tratta di un documento rivelatore del modo con cui a Bruxelles intendono affrontare la catastrofe ecologica in atto.

Depurato da una straripante retorica sui mirabili compiti che spettano alla nostra generazione per salvare quelle future – senza, peraltro, avanzare la minima analisi critica sulle ragioni e sulle responsabilità che ci hanno portati a tal punto – il documento annuncia una svolta verde, una “giusta transizione ecologica che non lascerà nessuno indietro”, grazie ad uno storico Green Deal capace di far convergere gli sforzi di tutte le componenti sociali, economiche e politiche in un unico obiettivo: una “società giusta e prospera, dotata di un’economia moderna, efficiente sotto il profilo delle risorse e della competitività che a partire dal 2050 non genererà più emissioni di gas a effetto serra, in cui l’ambiente e la salute dei cittadini saranno protetti e in cui la crescita economica sarà dissociata dall’uso delle risorse” (paragrafo 1.). Di più non si potrebbe sperare. Peccato che si tratti in gran parte di pubblicità ingannevole per mascherare veri imbrogli che ci spingeranno a capofitto nel baratro.

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La “giusta transizione” altro non è che una pioggia di provvedimenti, annunciati già per i prossimi mesi, volti a mobilitare un mucchio di soldi verso nuovi business green friendly. Per essere più precisi è annunciata una serie di aiuti di Stato sotto forma di sostegni, sovvenzioni e finanziamenti pubblici, prestiti bancari e incentivi affinché gli investitori privati possano avere nuove opportunità di collocamento dei propri capitali, partendo dal presupposto che i mercati si trovano in un “contesto di elevata liquidità” (paragrafo 5). In altre parole, secondo gli economisti dell’Unione Europea vi è una massa monetaria che fluttua nei mercati finanziari senza trovare assets convenienti. Ecco quindi che gli “investimenti verdi”, opportunamente protetti dai rischi e coperti i differenziali di rendimento rispetto ai tradizionali investimenti, potrebbero attivare quelle attività economiche reali potenzialmente in grado di far ripartire un nuovo ciclo di valorizzazione dei capitali fin qui accumulati. Ovviamente si tratterebbe di una “crescita verde”, smart, innovativa, sostenibile, inclusiva e persino equa.

Le corporazioni verdi ringraziano

L’assunto teorico di base su cui si basa tutta la strategia del Green Deal è che essa richiederebbe “investimenti ingenti”, “supplementari”, “aggiuntivi”. Per vari, apparentemente ragionevoli, motivi. Perché le tecnologie a basso impatto ambientale sono più costose di quelle tradizionali alimentate dai combustibili fossili; perché nella “transizione” vi sono settori industriali e aree geografiche più esposte di altre con possibili ripercussioni sull’occupazione e quindi da compensare con investimenti sostitutivi; perché la diffusione di nuove tecnologie hanno bisogno di infrastrutture sempre più sofisticate, digitali e intelligenti. Ecco quindi l’“ambiziosa” decisione dell’UE di mobilitare nel prossimo decennio “almeno 1.000 miliardi di investimenti sostenibili”, per creare un “quadro favorevole agli investitori” (paragrafo 1.) attingendo da tutte le fonti disponibili: dirette (dal bilancio dell’UE per 503 miliardi), dai bilanci degli stati membri (114 mld), dalla Banca Europea, che cambierà nome in Banca dell’Unione per il clima, dalle aste per la vendita dei permessi di inquinamento Emission Trading System (25 mld), da cofinanziamenti pubblici e privati (279 mld) coperti da complessi meccanismi di ingegneria finanziaria a “effetto leva” (fondi di garanzia, bond sovrani, ecc.). Tanti soldi da far pensare di essere giunti alla fine dell’era della austerità monetaria e alla nascita di un neo-keynesismo verde. A conferma di questa impressione c’è l’adesione entusiasta di Verdi e Socialdemocratici al piano presentato dalla nuova Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen. Insomma saremmo di fronte alla nascita di un nuovo New Deal di stampo rooseveltiano, capace di mobilitare tutte le risorse economiche e umane per invertire il lungo ciclo economico stagnante (l’Europa sta perdendo competitività anche sugli Stati Uniti) in nome di un nobile e comune obiettivo: contenere il riscaldamento globale “ben sotto la soglia del 2 per cento”. Come recita l’Accordo di Parigi. Detto in altri termini per gli economisti di Bruxelles il surriscaldamento del clima costituisce una occasione per attivare politiche economiche anticicliche. Vanno lette in questo senso le dichiarazioni degli amministratori delegati delle grandi corporazioni transnazionali più innovative e le entusiastiche accoglienze nel campo progressista delle proteste ambientaliste, dopo decenni di sottovalutazioni. Ricordiamoci che il prossimo anno sarà il cinquantesimo dalla pubblicazione del Rapporto del Club di Roma. Mezzo secolo senza che si sia fatto nulla per cambiare la direzione di marcia..

Oggi come allora dovremmo chiederci se la crescita dei fatturati, dei profitti e della redditività delle imprese di capitale rappresenti la soluzione alle necessità del pianeta e dei suoi abitanti, o se invece non siano la prima causa dei loro problemi. In altri termini, sarebbe più logico incominciare con il chiederci quali sono le strategie più semplici, rapide ed efficaci per far diminuire la febbre del pianeta dovuta agli impatti antropici e adeguare ad esse le politiche sociali ed economiche. Un ragionamento quasi banale, che invece il Piano di investimenti del Green Deal europeo non contempla. Nel documento infatti non vi è alcun riferimento ai vari documenti scientifici sullo stato ecologico del pianeta. Tra tutti pensiamo allo studio sui “limiti planetari” dei sistemi fondamentali della vita sulla Terra classificati dal gruppo di ricerca svedese di Johan Rockström (direttore dello Stockholm Resilience Centre e docente di Sistemi idrici e sostenibilità globale all’Università di Stoccolma), tra cui la biodiversitàil ciclo idrologicolo sfruttamento del suolo e il ciclo dei nutrienti come azoto e fosforo. Il rischio è perdere di vista la complessità della questione climatica. La definizione dei criteri di scelta dei “progetti giusti” che saranno valutati meritevoli di accedere alle varie operazioni agevolate di finanziamento e investimento è rinviata ad una prossima “tassonomia”, ovvero ad un sistema di classificazione e “verifica della sostenibilità” secondo indicatori climatici e ambientali ancora tutti da definire. Attorno al rating della sostenibilità da anni si scontrano enormi interessi. Da esso dipende il “valore reputazionale” dei brand, la possibilità di rastrellare risparmi e capitali, l’accesso al credito. Per ora il Piano europeo fa riferimento solo alla transizione energetica, ovvero alla “decarbonizzazione” delle fonti primarie utilizzate per produrre energia. Questione certo centrale per la lotta al surriscaldamento climatico, ma non certo l’unica. Sappiamo bene che le valutazioni di impatto ambientale devono contemplare le conseguenze su tutte le matrici naturali. Altrimenti il rischio, per le scelte energetiche, è quello di lasciare aperta la porta al nucleare. Ovvero, spostare il problema da una matrice ambientale a un’altra. Come sta già avvenendo con i “metalli rari” (una dozzina di elementi chimici immischiati in determinati terreni), considerati come il “nuovo petrolio”, perché il loro utilizzo è fondamentale nella produzione delle sofisticate apparecchiature elettroniche. Con buona pace per l’enunciato iniziale secondo cui: “la crescita economica sarà dissociata dall’uso delle risorse”. La scommessa del decoupling (del disaccoppiamento tra crescita economica e riduzione dell’uso delle risorse primarie impiegate nei cicli produttivi e di consumo) è stata fino a ora persa clamorosamente.

La finanziarizzazione del clima è cominciata

Per ora la Comunicazione della UE sul piano di investimenti sostenibili si limita a fare alcune scarne anticipazioni su quali dovrebbero essere i progetti da favorire: “ad esempio per quanto riguarda la cattura, l’uso e lo stoccaggio del carbonio” (paragrafo 3.1); sui “sistemi di economia circolare quali il riutilizzo del calore di scarto o il riciclaggio dei rifiuti” (paragrafo 4.3); sugli “aiuti per il teleriscaldamento” (paragrafo 4.3.3), sulle “infrastrutture del gas” (paragrafo 6.2). L’attenzione sembra essere più rivolta a sostenere “innovazioni pionieristiche” (paragrafo 4.) e “rendere l’industria europea un leader mondiale delle tecnologie pulite” (paragrafo 3.1) che non a contenere direttamente le pressioni sulla biosfera diminuendo le emissioni e aumentando le capacità della fotosintesi clorofilliana di catturare naturalmente la CO2.

A svelare i veri intenti e la grande pericolosità della politica economica della Commissione europea in campo ambientale è la completa omissione delle due forme più semplici ed efficaci dell’intervento regolatore pubblico: l’introduzione di una qualche forma di carbon-tax, sia per le produzioni interne (basterebbe anche solo interrompere i sussidi pubblici ai combustibili fossili), sia sulle emissioni di carbonio incorporato nelle merci importate; l’allungamento del ciclo di vita dei beni di consumo (sistemi di garanzia lunga, messa al bando dell’obsolescenza programmata, riciclabilità, ecc.). Con il primo provvedimento la transizione energetica verso energie rinnovabili si finanzierebbe da sola, con il secondo migliorerebbe il rapporto tra valore delle merci e intensità di materia e di energia contenuta.

La strategia della UE conduce alla finanziarizzazione del clima. Consegna gli obiettivi della sostenibilità nelle mani dei finanziatori che sceglieranno inevitabilmente le soluzioni tecnologiche a più forte intensità di capitale – pensiamo alla geoingegneria del clima (leggi anche Il business climatico, ndr) – e scarteranno le innovazioni organizzative sociali più semplici e meno costose (pensiamo alle abitudini alimentari o alle forme di condivisione delle cose e del tempo). Facciamo l’esempio più semplice: l’agroindustria da una parte, l’agroecologia dall’altra. La progressiva artificializzazione della vita da una parte, la rinaturalizzazione degli habitat dall’altra. Si tratta di scegliere in quale mondo ci piace di più vivere.

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