Da Brescia si leva un grido: basta parlare di guerra

Mimmo Cortese – 24 Marzo 2020

l linguaggio guerresco, militarista, spesso intollerante, che si sta diffondendo tra la stampa, i politici, i commentatori, i social, è sbagliato e pericoloso, dà per scontato che considerare la dimensione della guerra sia un fatto ovvio, naturale, quando si determinano situazioni di estrema, delicatissima e inaspettata difficoltà, come quella che stiamo vivendo in questi mesi. Il paragone improponibile con tutte le guerre, se pensiamo a quelle in atto oggi, dalla Siria allo Yemen, che vanno avanti seminando lutti e terrore, veicolati da inaudita violenza, spesso da decenni, è assolutamente inaccettabile.
La metafora è infausta e inquietante. Insistere su questo terreno rischia di farci introiettare come lecito paragonare la dimensione violenta, brutale e devastante di una azione progettata, diretta ed eseguita da uomini in carne ed ossa, a una crisi sanitaria che, sia pure dovuta ad una pericolosa pandemia, non possiede nessuna delle caratteristiche immonde delle guerre: il pervicace perseguimento di interessi economici, nazionalistici, geopolitici da fare prevalere con la forza della sopraffazione e dall’annientamento di massa.

Nelle ultime settimane è traboccato, diffuso ed uniforme, ampio e trasversale, un idioma davvero sconfortante fatto di trincee, di prime linee, di fronti, di barricate, di soldati, per indicare ospedali, dottori, infermieri, terapie intensive – luoghi e persone di cura e guarigione – segnale evidente purtroppo che questo modo di vedere il mondo sta penetrando sempre più a fondo anche nell’ordine simbolico e psichico della rappresentazione del reale, un manifestazione che ci indica come si stia sedimentando l’idea che le crisi, le difficoltà, le incertezze (una parola così importante di questa situazione) si risolvono con meccanismi trancianti, cesure nette, scelte indiscutibili e, se necessario, strumenti repressivi, violenti, totalizzanti. La guerra, giustappunto.

Non è lecito trasmutare nell’utilizzo delle parole una significativa e massiccia operazione di protezione civile, a meno che non si ritenga, più o meno esplicitamente, che mezzi, strumenti, simboli e condizioni che definiscono un conflitto armato facciano parte di un’ipotesi possibile da prendere in esame, anche solo parzialmente.

Si stanno levando alcune voci che avvertono del rischio che le restrizioni, i condizionamenti e i controlli di quest’oggi potrebbero lasciare pericolosi strascichi anche a crisi conclusa. Ma è paradossale aprire il dibattito e il confronto su questo terreno, continuando ad usare una forma di comunicazione che utilizza proprio quel linguaggio, scrivendo su giornali i cui titoli guerreschi campeggiano quotidianamente nelle loro testate. Non rilevare questa plateale contraddizione è preoccupante. Essendo perfettamente consapevoli, peraltro, che usare questo linguaggio più che indirizzare ad un atteggiamento consapevole e responsabile fa leva prepotentemente sulla paura, innestando al contrario, meccanismi di “difesa” dall’altro, cacce all’untore, sentimenti di intolleranza e di rabbia che alimentano giocoforza comportamenti di diffidenza, antisolidali, senza autocontrollo.

Anche sul piano delle più che giustificate preoccupazioni sul piano dell’economia derubricare e avviare il dibattito sotto il segno della “economia di guerra”, come autorevoli soggetti pubblici stanno affermando da giorni, evidenzia solo la volontà di predisporsi a ritornare a un “come prima” senza voler affrontare nessuno dei nodi che precedentemente erano già presenti ma accuratamente messi in un angolo: il perdurante e ampio squilibrio nella distribuzione della ricchezza sia nel nostro paese, sia a livello globale, la tipologia, l’uso e l’equa ripartizione delle risorse energetiche, le conseguenze e gli strumenti per trovare soluzioni al riscaldamento globale, l’accesso all’acqua, solo per dare i primi titoli di un lungo elenco.

Nodi e temi che non sono affatto scomparsi ovviamente, la cui risoluzione difficilmente potrà essere più agevole di quanto non fosse prima di questa pandemia. La differenza sarà che accettando la condizione di una “economia di guerra” (magari assieme alle nefaste teorie dello “stato d’eccezione”), il rischio di andare a passo svelto verso una situazione repressiva, illibertaria e illiberale, molto vicina a quella di un regime autoritario, nella quale forze dell’ordine ed esercito avrebbero conseguentemente un peso senza precedenti nella storia della Repubblica democratica, sarebbe davvero molto alto. Con il corollario inevitabile che ogni scelta sarebbe presa, gestita e diretta, preminentemente, a favore dei detentori di potere e privilegi.

Suonatore di cornamusa su un campo di battaglia
Suonatore di cornamusa su un campo di battaglia

In questo quadro è gravissimo e irresponsabile, oltre che incomprensibile, che il settore industriale “aerospazio e della difesa” sia stato incluso tra le categorie delle attività strategiche e dei servizi essenziali nel decreto del 23 marzo 2020. Non solo perché continuare a produrre un cacciabombardiere d’attacco appare vieppiù nauseante ed immondo in questa situazione ma anche perché Governo e Parlamento sanno bene che una cospicua parte di queste “essenziali” produzioni sarà indirizzata ad altri paesi, per realizzare profitti il cui esito sarà la morte e l’annientamento di uomini, donne e bambini.

Scrivo queste poche parole da Brescia, da una delle città più pesantemente colpite dal Covid 19, una città con una storia e una propensione alla solidarietà, alla condivisione, alla costruzione di relazioni rispettose delle differenze e della dignità di ogni uomo e ogni donna, molto antica e radicata. Una città la cui storia antifascista, nonviolenta e di lotta democratica per le conquiste civili e sociali, ha fondamenta forti e solide.

A Brescia da tre anni si tiene il Festival Internazionale della Pace. Voglio augurarmi che tutti i costruttori di pace, gli attivisti, le associazioni, le istituzioni, la scuola, gli studiosi, i giornalisti, i docenti universitari e gli uomini e le donne che hanno dato il loro importante contributo vogliano iniziare a parlare con un linguaggio di pace anche in questa terribile situazione, preparandosi già da oggi all’uscita dall’emergenza sanitaria seguendo la strada che “promuove la cultura e la pratica della pace, del ripudio della guerra, della non violenza, della giustizia sociale, del rispetto dei diritti umani in conformità ai principi contenuti nei documenti internazionali in difesa dei diritti dell’uomo e dei popoli”, come è scritto a chiare lettere anche nella carta fondativa della vita civile della città, lo Statuto del Consiglio Comunale.

Non possiamo dimenticare, mai, men che meno in questa circostanza, le parole e lo studio memorabile del grande filologo Victor Klemperer, “la lingua non si limita a creare e pensare per me, dirige anche il mio sentire, indirizza tutto il mio essere spirituale quanto più naturalmente, più inconsciamente mi abbandono a lei. E se la lingua colta è formata di elementi tossici o è stata resa portatrice di tali elementi? Le parole possono essere come minime dosi di arsenico: ingerite senza saperlo sembrano non avere alcun effetto, ma dopo qualche tempo ecco rivelarsi l’effetto tossico”. Parole nate nella terribile esperienza tedesca laddove l’eminente studioso osservò come il nazismo “si insinuava nella carne e nel sangue della folla attraverso le singole parole, le locuzioni, la forma delle frasi ripetute milioni di volte, imposte a forza alla massa e da questa accettate meccanicamente e inconsciamente” (Victor Klemperer, LTI. La lingua del Terzo Reich).

Le parole per affrontare questa pandemia sono cura, ricerca medica, responsabilità, condivisione, attenzione, salute, precauzione, guarigione, cautela, solidarietà, fragilità, lentezza, protezione, amore. Nulla a che vedere né con la guerra né con i simboli che essa propala e scatena.

Il linguaggio che usiamo racconta sempre molto di più di quanto non appaia, di quanto a noi non sembri; lancia le sue ombre, i suoi presagi funesti, oppure lascia intravvedere le vie di risalita, le rocce cui ancorarsi, prima, molto prima che il nostro occhio le scorga.

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