La Giornata della Memoria tra allarme ricordi e dolore

28 Gennaio 2022 – Nino Lisi – Articolo 21

Sono allarmato ed addolorato per l’episodio delle due quindicenni che hanno aggredito un dodicenne perché ebreo. Sono ancora più allarmato apprendendo che l’ignominioso, velenosissimo virus dell’antisemitismo le due adolescenti  non l’hanno preso in  famiglia, che ne sembrano esenti. Vuol dire allora che  l’infezione e  circola nell’aria e può quindi contagiare chiunque  non sia ben vaccinato.

Ma nell’aria, come? La risposta me l’ha data Radio Rai3: pare che un’epidemia sia scoppiata sui social  e stia contagiando giovanissimi e giovanissime che la scuola, le famiglie, la cultura corrente non hanno ben vaccinato. Eppure si sa che è un virus che non viene geograficamente da lontano, ma è da tempo, da alcuni secoli insinuato nelle pieghe della nostra cultura, della cultura europea, e che ha dato terribili prove di sé, provocando ghetti, persecuzioni, pogrom, campi di sterminio ed orrori indicibili.

Bisognerebbe sapere quindi che per sterilizzare questo  virus e renderne indenni le nuove generazioni non basta celebrare la memoria della Shoà una volta l’anno, non è sufficiente  condurre scolaresche a visitare ciò che resta dei “campi”, come  rito  periodico: i mostri del passato vagano ancora fra noi.  I conti con quei mostri non li abbiamo ancora fatti e la nostra cultura non è stata epurata dai germi che riproducono l’infezione. Ecco perché  basta che un qualunque imbecille insinui nei social che con il Covid ci hanno qualcosa a che fare gli Ebrei, che scoppia l’epidemia e due quindicenni di una cittadina toscana insospettabile, cresciute in famiglie civili,  sputano addosso ad un bambino più piccolo di loro  perché è  ebreo.

Sono allarmatissimo. E vivo con indignazione  e dolore questa Giornata della Memoria”, in cui si ricordano i 6 milioni di Ebrei , 500.000 Rom e Sinti,  migliaia di disabili, di comunisti, di omosessuali e di antinazisti e  antifascisti, tutti uccisi nelle camere a gas durante il conflitto del ’39-45 che chissà perché a volte è chiamato l’ultima guerra.

Vivo con dolore questo giorno  anche per fatto personale, perché anch’io ho  morti amatissimi  da ricordare: Iole ed Amedeo che da  bambino  chiamavo “mamma e babbo giù”; Aldo, il loro primogenito, e Milena sua moglie; Elda – per me Ndindina – la terzogenita e suo marito Loris; Sergio,  marito della secondogenita Ivonne – per me Tatita –  madre di Renato.

Di quella famiglia dopo la guerra ho rivisto solo solo Ivonne e Renato. Le altre  persone no, perché i Tedeschi le avevano prese e portate ad Auschwitz.

Per la verità Sergio non se lo erano preso i Tedeschi, perché insieme alla moglie ed al figlio era fortunosamente  scampato all’arresto. Era andato a costituirsi dopo, per far rilasciare un amico non ebreo che essendosi prestato a a portare della biancherie a coloro che erano stati arrestati, era   preso in ostaggio per costringere chi l’aveva fatta franca a presentarsi. Così Sergio, baciata Ivonne e baciato il piccolo Renato, andò non spontaneamente ma con i suoi piedi incontro alla morte.

Sino al 4 Dicembre del 1942  ho vissuto con quelle persone quasi ogni giorno dei miei 12 anni.

Abitando nello stesso palazzo e  nella stessa scala, a  due piani di distanza,  ed essendo tutta la mia famiglia e loro  legati da grandissima amicizia, si viveva molto insieme: di mattina, se non c’era scuola  io andavo “giù” da loro a giocare con il cane Wolf e Ndindina, mentre la sera,  se l’Eiar trasmetteva commedie o opere liriche,  Ivonne ed Elda salivano “su” a sentirle alla radio insieme ai miei. Scoppiata la guerra le occasioni di incontro si moltiplicarono, ci si vedeva  anche di notte, nello scantinato del palazzo, adibito a ricovero antiaereo  dove  si cercava di sedersi  accanto, tranne  gli uomini che  per mancanza di spazio, restavano in piedi.

Quando  tra  la guerra di Etiopia e la guerra mondiale  Ivonne e Sergio, che   aveva partecipato alla prima,  si sposarono, io feci da paggetto ad Ivonne e le ressi lo strascico. Assistetti così, con indosso il vestito della mia prima comunione, al rabbino  che, secondo il rito ebraico,  dopo aver salmodiato in una lingua a me sconosciuta,  ruppe un bicchiere di cristallo  in un catino d’argento. I rapporti erano questi.

Il pomeriggio del 4 Dicembre del 1942 ci  trovammo affannati per la corsa e tremanti di terrore  insieme  agli/le altr@ inquilin@  della scala innanzi alla porta ancora chiusa dello scantinato: il portiere non l’aveva aperta poiché il primo bombardamento “a tappeto” delle “fortezze volanti statunitensi” su Napoli non si  era fatto annunziare dal suono acuto delle sirene.  .

Il giorno dopo ci ritrovammo di nuovo  alla fermata del tram che ci condusse, anche questa volta insieme, alla stazione delle Vesuviana, noi diretti a Torre del Greco, loro a San Giorgio, due paesi alle falde del Vesuvio, nella speranza di scansare  le bombe.

Non mancarono di venirci a salutare quando decisero di trasferirsi in Toscana, ritenendola più sicura.

Da lì sette di loro avrebbero proseguito verso i forni crematori.

Terminata la guerra Ivonne e Renato ci rintracciarono e l’amicizia è continuata  sia durante i diversi  anni in cui rimasero in Italia  sia dopo. Quando, prima l’uno poi l’altra, si trasferirono in Israle. Abbiamo continuato a frequentarci e a volerci un gran ben finché Ivonne e poi anche Renato sono morti. Anche questi sono stati dolori forti che nel Giorno della Memoria si ravvivano.

Ho conosciuto anche il figlio e le due figlie di Renato ed anche di loro  sono  diventato e sono rimasto amico. Lo ricordo con un velo di amarezza perché credo che quando hanno appreso, suppongo attraverso Internet, che nel conflitto Israelo-Palestinese io sto senza tentennamenti dalla parte dei Palestinesi non l’abbiano presa bene. Probabilmente non riusciranno ad accettare che si può amare gli Ebrei, avere in grande considerazione l’Ebraismo e nel contempo  battersi perché ai Palestinesi sia  riconosciuto il diritto di vivere in pace ed in indipendenza sulla propria terra.

Ho pensato di  esternare questi   sentimenti e ricordi dolorosi non semplicemente perché riemersi nel Giorno della Memoria, ma  perché parlare, scrivere di queste cose  normalmente, raccontarle   senza filtri ideologici e pregiudizi a chi non le ha vissute e poco o niente ne ha saputo  possa contribuire a non fare tornare più i mostri del passato e a fare da antidoto al veleno che  tenta  minaccioso di riprendere a circolare. Vorrei insomma che tutte e tutti ci dessimo da fare per realizzare una grande campagna di vaccinazione contro il virus infame dell’antisemitismo.  E non parlarne solo una volta l’anno.

La Giornata della Memoria tra allarme ricordi e dolore

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