Chiamiamola privatocrazia sanitaria, una cancrena

Avevamo il secondo sistema sanitario più bello del mondo, per l’Oms, fino al 2000. Oggi almeno il 60% dei fondi pubblici finisce in mano ai privati; più del 50% delle strutture che si occupano di malattie croniche sono private. I tagli della prossima legge di bilancio assecondano questa metastasi.

3 Settembre 2023 Sezione: Politicaprimo piano

Parecchi anni fa, in taxi per le strade di Nairobi, ricordo lo sbalordimento quando il taxista dichiarò en passant, ma con sarcastico sollievo, che nell’eventualità di un incidente con la macchina, la mia presenza a bordo avrebbe garantito la disponibilità di una carta di credito per accedere al pronto soccorso anche per lui. Già la privatizzazione della salute in Kenya rivelava le sue aberranti manifestazioni, incluso il fatto che – come raccontava il taxista con angoscia – anche partorire in ospedale comportava un costo che la maggior parte della popolazione non poteva permettersi. I parti difficili finivano male, perlopiù, era accaduto anche a sua figlia.Oggi, nel paese che nel 2000 si collocava al secondo posto al mondo (dopo la Francia) per la qualità del servizio sanitario nazionale secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), ci stiamo dirigendo – un passo alla volta, neppure tanto lentamente – nella stessa paradossale direzione. La brutale esperienza italiana della pandemia è stata rimossa in un soffio, un fastidioso ricordo del passato, malgrado le molteplici perduranti e visibili conseguenze. Ritorna in voga invece la stagione dei tagli alla sanità pubblica, come se non bastasse lo schiaffo in faccia delle insufficienti risorse del PNRR assegnate ai servizi sanitari devastati da Covid-19. I tagli al comparto della salute fanno capolino già dalle prime bozze della legge di bilancio, in stupenda sintonia con le proiezioni del Fondo Monetario Internazionale (FMI), che prevede 143 paesi sotto la morsa di nuove riforme di austerity entro la fine del 2023 (Ortiz e Cummins, 2022): l’85% della popolazione mondiale! Ma torniamo in Italia. Mentre si (ri)accende il dibattito politico sulla scandalosa crisi della sanità pubblica, incalzato da acuminate inchieste come quella recente su sanità e assicurazioni de Il Fatto Quotidiano e da opinioni di esperti che pesano  la portata sociale del collasso del sistema sanitario nazionale – si legga Antonello Maruotti su Avvenire in merito al constante impoverimento della popolazione italiana alimentato dai costi delle prestazioni essenziali – emergono dalle strutture private accreditate sollecitazioni che ravvivano le angosce del taxista kenyano: il pronto soccorso privato, a pagamento. Un accesso ai servizi di emergenza che non dipende dai codici rossi, ma dai codici delle carte di credito e dei conti correnti bancari!

Il percorso di privatizzazione della salute in Italia torna alla grande dopo la breve pausa pandemica, senza trovare alcun ostacolo. La situazione ha raggiunto livelli più che allarmanti: almeno il 60% dei fondi pubblici finisce in mano ai privati, in particolare per l’acquisto di servizi medici e farmacologici; più del 50% delle istituzioni sanitarie che si occupano di malattie croniche sono in mano ai privati, così come lo sono più dell’80% delle istituzioni di assistenza sanitaria residenziale. L’Osservatorio GIMBE ha calcolato oltre 12 miliardi di sprechi e inefficienze, assorbiti da sovra e sottoutilizzo dei servizi sanitari, con prestazioni che sono fornite in assenza di un adeguato coordinamento, con crescenti disuguaglianze di accesso tra regioni, interne alle stesse regioni (fra aree urbane e rurali), fra popolazioni in stato di bisogno,  con scarsa uniformità di protocolli,  segmentazione di gestioni amministrative a cui si associano di volta in volta ricorrenti fenomeni di disinvestimento e riallocazioni di risorse (finanziarie e umane). La cronica mancanza di finanziamento alla sanità pubblica – una metastasi cui hanno contribuito con grande spirito di continuità i governi di ogni colore politico – si è saldata con la mancanza di programmazione e con la sostanziale assenza di un dialogo sociale in grado di coinvolgere le realtà interessate della società civile. Questo scenario ha prodotto danni incalcolabili e consegnato la sanità pubblica al privato sociale (che ne ha fatto un progettificio per la gestione delle crescenti marginalità) e al privato profit che ne ha fatto territorio sconfinato di profitto.

Una forte spinta a queste dinamiche di decostruzione del servizio sanitario nazionale è venuta dalla devolution sanitaria scaturita dalla riforma del Capitolo V della Costituzione, una classica ricetta neoliberista somministrata da decenni in tutto il mondo contro ogni realistica evidenza, precisamente con lo scopo di erodere ogni capacità politica dei governi in ambito sanitario. Le esternalità negli esiti di salute sono immense.  In Italia, lo abbiamo registrato con la pandemia, la regionalizzazione è stata uno dei fattori di più acuta debilitazione della risposta italiana all’inatteso virus SARS-CoV-2. Il dato relativo alla fragilità strutturale derivante dalla regionalizzazione della salute in Italia era stato prontamente identificato nel primo rapporto dell’Oms sull’impatto del nuovo coronavirus, relativo all’Italia, pubblicato il 13 maggio 2020 e rimosso solo dopo 24 ore dal sito Oms.

Ma la progressiva privatizzazione della sanità avanza in tutto il mondo, quello italiano è solo il tassello di un fenomeno più ampio e globale.  In un magnifico saggio pubblicato nel 2020 con il titolo The Privatized State(tradotto in italiano: Privatocrazia. Perché privatizzare è un rischio per lo Stato Moderno), Chiara Cordelli spiega come i processi di privatizzazione non comportino affatto una riduzione della spesa pubblica complessiva né delle dimensioni dello stato, laddove subentra invece una ripartizione del potere politico all’interno di un sistema amministrativo il cui la gestione della funzione pubblica viene delegata, sic et simpliciter, ai privati. In altre parole, i privati vengono chiamati ad operare come amministratori pubblici e i fondi pubblici finiscono nelle mani dei privati, che operano come agenti dello Stato, sicché lo Stato si trasforma nella sua propria essenza, ed in ultima analisi si privatizza. Con esiti disumanizzanti nel caso della salute, come già avviene nel sud del mondo.

Il modello della sanità privata si diffonde a macchia d’olio anche grazie all’azione di istituzioni finanziarie internazionali, Banca Mondiale in testa. Queste destinano ingenti fondi pubblici al settore privato con l’obiettivo dichiarato di promuovere lo sviluppo economico nei paesi poveri, combattere la povertà e migliorare i servizi sanitari. Le conseguenze sono semplicemente sconvolgenti, come racconta con rara potenza di denuncia il rapporto Sick Development, frutto di una complessa e coraggiosa ricerca di Oxfam sulla privatizzazione della salute in Africa. La ricerca è associata ad un secondo rapporto dal titolo First,do no Harm, che include un approfondimento sull’India.

“E’ terribile vederla così, il suo corpo è trasformato. Non sembra più nemmeno un corpo, ma un ammasso di pietra”.  Franciska Wanjiru parla della salma di sua madre, trattenuta da due anni presso il Nairobi Women’s Hospital per il mancato pagamento delle spese ospedaliere. Il suo debito equivale a 43.000 dollari. La storia di Franciska non è un caso estremo ed eccezionale – nel 2017 una donna si è vista trattenere il figlio appena nato per oltre tre mesi, perché incapace di pagare i 3000 dollari richiesti per il parto, e la detenzione dei pazienti, e delle loro salme, come forma di intimidazione e di estrazione finanziaria è andata avanti in Kenya anche dopo il pronunciamento di un tribunale contro l’ospedale per violazione della Costituzione. Più di recente, nel marzo 2021, la Corte Suprema ha imposto al Nairobi Women’s Hospital un risarcimento di oltre 27.000 dollari a favore di Emmah Muthoni Njeri, illegalmente detenuta per oltre cinque mesi. E poi ci sono le ritorsioni contro il personale sanitario per aver affrettato le dimissioni dei pazienti, le pressioni sul personale medico perché richieda nuove diagnosi, la raccomandazione ai pazienti di interventi chirurgici inutili. Tutto documentato nel rapporto, inclusa la paura dei familiari che temono ritorsioni sui loro cari.

Sia chiaro: il Nairobi Women’s Hospital non è una mela marcia, e il problema non riguarda solo il Kenya. In molti paesi a basso reddito, ospedali privati sfruttano i bisogni di comunità spesso prive di strutture sanitarie pubbliche e abusano dei pazienti. Imprigionandoli se non pagano il conto, negando loro il pronto soccorso se son poveri, strattonandoli finanziariamente con tariffe improponibili anche quando spetterebbero loro cure gratuite, sospingendoli in un abisso di dolore e impoverimento di cui vengono investiti familiari e amici, e da cui è praticamente impossibile riscattarsi. Non guardano in faccia a nessuno, neppure le partorienti. I Lagoon Hospitals in Nigeria, il quarto paese al mondo per mortalità materna, annunciano tariffe convenienti per un parto a patto di avere un’assicurazione privata (il 97% della popolazione né è priva), una copertura aziendale o il contante. La convenienza corrisponde a nove mesi di reddito per il 50% più povero della popolazione, a 9 anni per il 10% di fascia più bassa. In India due ospedali convenzionati, rispettivamente negli stati di Chhattisgarh e Odisha, hanno rifiutato cure gratuite a titolari di assicurazioni governative e altre esenzioni, costringendo le famiglie di questi pazienti a “conseguenze finanziarie catastrofiche”. Oxfam racconta dettagli raccapriccianti: medicinali messi in conto al prezzo gonfiato del 50%, cateteri monouso riutilizzati e addebitati più volte, casi da medicina d’urgenza rifiutati per insufficienza finanziaria (sebbene la legge in India imponga l’obbligo di cure d’emergenza per gli incapienti).

Neppure la pandemia Covid-19 è servita per immunizzarli, questi privati. Quale migliore occasione del resto? Nel culmine dell’emergenza hanno volteggiato sulla paura e sui sintomi dei pazienti senza farsi scrupoli. In Uganda, il Nakasero Hospital di Kampala faceva pagare un letto in terapia intensiva l’equivalente di 1.900 dollari al giorno. Al TMR Hospital, i familiari di un paziente poi deceduto a causa del virus si sono ritrovati l’esorbitante conto di 116.000 dollari da saldare.

La vera patologia sta a monte: i proprietari e gestori di questi ospedali non riescono a pensare alla salute se non in termini di lucro.  E questo scandalo ci riguarda direttamente. Gli ospedali privati di cui racconta il rapporto di Oxfam sono foraggiati dalle istituzioni finanziarie europee per la cooperazione allo sviluppo. I ricercatori hanno rintracciato circa 400 investimenti in capo a tre entità nazionali europee – la British International Investment (BII), la Proparco francese e la Deutsche Investitions und Entwicklungsgesellschaft (DEG) – poi alla Banca Europea per gli Investimenti (BEI) e infine alla International Finance Corporation (IFC), il braccio privato della Banca Mondiale. Intrecciate fra loro più volte nei finanziamenti. La ricerca riesce a individuare 358 investimenti ad aziende sanitarie private nei paesi a medio e basso reddito fra il 2010 e il 2022, per un totale di 3,2 miliardi di dollari. Il 56% degli investimenti europei sono destinati a ospedali privati e ad una miriade di providers privati soprattutto in Africa e in Asia, tramite intermediari finanziari del comparto sanitario. La Banca Mondiale risulta co-investitore in almeno 42 delle operazioni di intermediazione finanziaria e in almeno 112 investimenti diretti ad aziende private.

La mobilitazione finanziaria a favore dei privati per la salute dei paesi poveri si aggancia da qualche anno agli obiettivi per lo sviluppo sostenibile, in particolare alla copertura sanitaria universale, tema prioritario nella agenda internazionale. Le operazioni si costruiscono tuttavia nel più sorprendente deficit di trasparenza e di accountability – è stato arduo estrarre le indispensabili informazioni, ancora troppo scarse. Le numerose operazioni, in aumento dopo la pandemia (per quanto riguarda la Banca Mondiale), si dipanano in una trama invisibile di intermediari finanziari, perlopiù fondi di azionariato privato, impenetrabili anche perché hanno sede nei paradisi fiscali – l’80% dei 140 intermediari intercettati da Oxfam sono domiciliati alle Mauritius e alle Isole Cayman.  Privatizzazione e finanziarizzazione della salute vanno a braccetto allegramente nel sud del mondo con i nostri soldi, ma sempre più dettano legge anche da noi, malgrado la pandemia e le sue inequivocabili lezioni.

Il rapporto di Oxfam dà la sveglia, per questo va letto con molta cura per la visione prospettica che rilancia anche ai paesi ricchi: la salute pubblica, universalista e gratuita, è la via maestra. Non si può trattare su questa materia. L’alternativa è una disumanizzazione che non ha nulla a che vedere con la salute e la sostenibilità, se non quella degli affaristi privati che senza scrupoli ne approfittano, anche in Italia. Pensiamoci! E mobilitiamoci per salvare il nostro servizio sanitario pubblico, se non vogliamo fare la fine di Franziska ed Emmah.

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