Le condizioni di vita peggiorano (e il governo fa poco per cambiare)

Il Documento economico finanziario del governo Draghi non fa nulla per correggere un modello di sviluppo sbagliato, mentre il rapporto Benessere equo e sostenibile dimostra che le condizioni di vita peggiorano ancora

Giuseppe De Marzo – Coordinatore nazionale Rete dei numeri pari – 2 maggio 2022

Davvero modesto e inadeguato il Documento economico e finanziario (Def), cioè il documento che indica la strategia economica e di finanza pubblica nel medio termine, presentato a inizio aprile dal governo Draghi. È un bilancio che non interviene per curare e correggere ma per garantire il modello di sviluppo che ha provocato la crisi. Mentre la follia della guerra e la campagna politica di arruolamento permanente cancellano dall’agenda e dal dibattito i problemi e le priorità del paese: disuguaglianze, lavoro povero e precario, collasso climatico, bonifiche ambientali, investimenti nella ricerca, nella sanità pubblica, nella medicina territoriale, nella prevenzione e nella cultura, disagio abitativo, corruzione e zona grigia, welfare sostitutivo mafioso, messa in sicurezza del territorio e degli edifici pubblici, a partire dalle scuole, ecc… Il Def rinuncia a programmare la domanda di beni e servizi, così come gli investimenti necessari per realizzare le priorità indicate su equità sociale e sostenibilità ambientale dal Next generation Eu. Conferma invece la fede unica nel liberismo economico, rinunciando a qualsiasi intervento per orientare o modificare il mercato in funzione della priorità dei diritti imposta dalla Costituzione.

Più spese militari, meno diritti sociali e giustizia ecologica

Il Bes lo dimostra: si vive peggio

Le basi tracciate per lo sviluppo economico sono le stesse che hanno prodotto la crisi, l’aumento delle disuguaglianze, il collasso climatico e la diffusione dei nuovi virus. Rispetto ai roboanti annunci con cui è stato accolto il governo dei migliori la realtà dei fatti ci dice che le cose in Italia continuano a peggiorare. Il Def non ha il coraggio di intervenire nemmeno sugli osceni extraprofitti realizzati dalle grandi società energetiche. Nessuno spazio per la programmazione, né per la politica economica. Poco importa che la maggioranza degli italiani stia pagando il prezzo della guerra. Non vi è traccia nel Def di interventi che diano risposte strutturali all’impoverimento continuo della maggioranza dei cittadini, ampiamente denunciato dai rapporti Istat degli ultimi anni. Il benessere dei cittadini e il rispetto dei principi costituzionali dovrebbero essere gli obiettivi finali delle politiche. Da tempo purtroppo non è più così.

Lo vediamo anche dall’ultimo rapporto Benessere equo e sostenibile (Bes) presentato dall’Istat, che con i suoi 153 indicatori sulla qualità della nostra vita conferma la tendenza al continuo peggioramento delle condizioni materiali ed esistenziali della maggioranza della popolazione. L’incidenza della povertà assoluta ha raggiunto infatti il livello più elevato dal 2005 (anno di inizio della serie): oltre un milione 950mila famiglie (7,5%) e più di 5 milioni 500 mila individui. I minori in povertà assoluta nel 2021 sono 1 milione e 384mila. L’analisi degli indicatori soggettivi mostra come nel 2021 le famiglie che dichiarano un peggioramento della propria situazione economica rispetto all’anno precedente aumentano per il secondo anno di seguito. D’altro canto, non vi è nessuna reale ripresa dell’occupazione. Nel 2021 la crescita dei posti di lavoro ha riguardato esclusivamente dipendenti a termine e collaboratori, soprattutto di breve durata. Aumenta invece il lavoro povero, precario ed insicuro. Così come la percentuale di persone che vivono in grave deprivazione abitativa, cioè in abitazioni sovraffollate o in alloggi privi di alcuni servizi e con problemi strutturali (soffitti, infissi, ecc.). L’Italia scende al quinto posto della graduatoria dei Paesi dell’Unione per la peggiore condizione abitativa, superata solo da Ungheria (7,6%), Bulgaria (8,6%), Lettonia (11,5%) e Romania (14,3%). Un altro dato terribile è quello della crescita della percentuale di persone che hanno dovuto rinunciare a prestazioni sanitarie ritenute necessarie per problemi economici o difficoltà di accesso al servizio: salita all’11 per cento nel 2021.

La popolazione femminile è quella più colpita dal peggioramento delle condizioni generali, in particolar modo nei livelli di benessere mentale e di occupazione, soprattutto per le madri con figli piccoli. Ma anche i bambini, gli adolescenti e i giovanissimi pagano un prezzo enorme alla pandemia e alle restrizioni imposte dalle misure di contrasto. Le condizioni di benessere psicologico dei ragazzi di 14-19 anni sono peggiorate. Se gli adolescenti insoddisfatti e con un basso punteggio di salute mentale erano nel 2019 il 3,2% del totale, nel 2021 la percentuale è raddoppiata (6,2%). Parliamo di circa 220 mila ragazzi tra i 14 e i 19 anni che si dichiarano insoddisfatti della propria vita e si trovano, allo stesso tempo, in una condizione di scarso benessere psicologico. Che non sia un paese per giovani e che la politica abbia girato loro le spalle lo vediamo anche dal tasso di occupazione, già tra i più bassi di tutti i paesi europei tra i 25-34 anni, con una distanza particolarmente ampia per le ragazze, addirittura peggiorato con la pandemia.

Giovani in fuga

Ai giovani più istruiti e qualificati, l’Italia non offre opportunità adeguate. Le emigrazioni all’estero dei giovani laureati italiani si sono infatti intensificate rispetto al 2019. Il bilancio delle migrazioni dei cittadini italiani tra i 25-39 anni con un titolo di studio di livello universitario si chiude con un saldo dei trasferimenti di residenza da e per l’estero di -14.528 unità. Il Mezzogiorno soltanto nel corso del 2020 ha perso 21.782 giovani laureati. L’Italia è al primo posto per presenza di Neet (da “Not in Employment, Education or Training“, cioè giovani che non si formano, né lavorano) in Europa. Il 23,1 per cento dei giovani tra 15 e 29 anni non sono più inseriti in un percorso scolastico o formativo e neppure impegnati in un’attività lavorativa. Le differenze regionali rimangono elevate, mostrando una questione meridionale sempre più grave che certifica l’assenza di visione e di programmazione del governo e della maggioranza politica che lo sostiene. Le regioni con la quota più elevata di Neet sono la Puglia (30,6%), la Calabria (33,5%), la Campania (34,1%) e la Sicilia (36,3%).

Gli effetti si vedono anche sull’istruzione. La quota di coloro che hanno abbandonato precocemente gli studi è ovviamente più elevata nel Mezzogiorno: sono il 19,5 per cento nelle Isole e il 15,3 per cento nel Sud. In alcune regioni del Mezzogiorno i valori dell’indicatore evidenziano situazioni di forte criticità con più del 50 per cento dei ragazzi insufficienti nelle competenze alfabetiche (in Campania 54,1%; Calabria 59,2%; Sicilia 52,8% e Sardegna 56,9%) e più del 60% delle ragazze insufficienti nelle competenze numeriche (in Campania 64,3%; Calabria 68% e Sicilia 63,3%).

Un ritorno al liberismo

Nonostante peggiorino da quindici anni le condizioni di vita della stragrande maggioranza del paese, l’incessante richiesta di ritorno alla “normalità” (leggasi liberismo economico) e la brutale semplificazione dettata dall’agenda della guerra stanno nascondendo le priorità del paese, contribuendo a determinare una condizione senza ritorno non solo per la maggioranza della popolazione impoverita ma per la democrazia. Per migliorare le nostre vite e rispondere alla crisi di sistema e all’assenza di visione in cui siamo immersi, abbiamo bisogno di una inversione completa di rotta, di un metodo inclusivo e partecipativo come indicato dalla sentenza 131 del 2020 della Corte costituzionale (sulla sussidiarietà degli enti del Terzo settore, leggi qui) e di un radicale ripensamento del modello di sviluppo.

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