Perché avere i piedi sulla terra

Sabato 4 giugno è stato presentato il progetto “I piedi sulla terra – percorsi di ricerca intorno alla crisi ecologica”, che si avvale di una parte dedicata del sito del CRS e di un magazine online. Pubblichiamo la relazione che ha introdotto l’incontro, nella quale si è cercato di rispondere alla domanda: perché questa nuova iniziativa?

9 Giugno 2022 di ALESSANDRO MONTEBUGNOLI – Centro per la Riforma dello Stato

1. Per dire che la crisi ecologica pretende qualcosa di diverso da una ‘transizione’

Non si tratta di colorare di verde le nostre economie, le nostre società. Si tratta di incidere sulle loro strutture fondamentali, dalle quali – insieme agli altri motivi del nostro scontento – discende la spiccata tendenza a violare i planetary boundaries che ormai tutti, più o meno, riconoscono. E neppure, per la verità, si tratta soltanto di ‘strutture’, visto che queste ultime, alla fine, sono forme oggettivate dei nostri modi di pensare, e anche di sentire. In questo senso, volendo, si può anche parlare del bisogno di una ‘conversione’.

D’altra parte, a proposito di ‘ambiente’ e ‘società’, almeno da Bateson in poi si è capito quanto profondo sia il legame che unisce la solidarietà tra gli esseri umani e la solidarietà tra gli esseri umani e il sistema-terra. Nei tempi durissimi che viviamo, l’implicazione si presenta capovolta, come violazione di quel ‘grado zero’ della solidarietà che è la pace. Cosi, insieme alle tante sofferenze e morti provocate dalle armi, ci troviamo a mettere in conto un quadro delle relazioni globali che è l’esatto opposto della possibilità di uscire dall’era dei combustibili fossili in modo rapido, ordinato ed equo. Ma il punto è schiettamente positivo, e alto. La cura del mondo e la cura reciproca, degli altri e delle altre che noi stessi e noi stesse siamo, come pure la cura del Sé, simul stabunt simul cadent.

2. Per invitare a un minuto di riflessione prima di usare la parola d’ordine ‘sviluppo sostenibile’ (e poi, possibilmente, non farlo)

Nell’interpretazione più diffusa, il costrutto dello ‘sviluppo sostenibile’ sembra fatto apposta per evitare di mettere in questione l’imperativo della crescita che domina l’intero discorso pubblico sull’economia. Il messaggio, infatti, non è soltanto che lo sviluppo deve essere reso sostenibile, perché oggi non è tale, ma anche e soprattutto che può esserlo, fondamentalmente grazie alla sostituzione delle fonti fossili con le quelle rinnovabili e a cospicui aumenti di efficienza sul versante degli impieghi finali, tanto di energia quanto di materia, circolarità compresa. Cioè, fondamentalmente, grazie al progresso tecnologico, accreditato di potenzialità sufficienti affinché il tasso di crescita dell’economia non debba essere chiamato in causa in quanto tale.

Il minuto di riflessione al quale invitiamo serve innanzi tutto a cogliere questo ‘sapore’ della parola d’ordine, e poi a riconoscere la necessità di controllare se le sue pretese siano, esse stesse, sostenibili. Che ve ne sia bisogno è suggerito dal fatto che lungo tutta la storia economica degli ultimi due secoli e mezzo gli aumenti di efficienza sono stati regolarmente messi al servizio della crescita, anzi ne sono stati il driver più potente, e però hanno sempre comportato un aumento della pressione antropica sul sistema-terra. E quanto alle fonti di energia, c’è da dire che sono come le medicine: nessuna è esente da effetti collaterali, e tutte, però, messe al servizio di una crescita di tipo esponenziale, fatalmente finiscono per violare i planetary boundaries.

Dunque la necessità di una riflessione circostanziata, e schietta, spregiudicata, su quale livello delle attività produttive e di consumo, messa in conto ogni ragionevole prospettiva di progresso tecnologico, può risultare davvero sostenibile. Nella consapevolezza, anche, che tutto dipende dalle scelte circa la distribuzione della quantità globalmente sostenibile tra i paesi ricchi e i paesi poveri, secondo il principio – fondamentale if there is one – delle Responsabilità Comuni ma Differenziate.

3Perché esiste un’‘aritmetica’ della sostenibilità, ed è bene che diventi patrimonio comune

Il punto è già implicito in quello che precede, ma merita un’ulteriore sottolineatura. Bisogna familiarizzarsi con due idee:

  1. il flusso dei beni e dei servizi (il livello del Pil) che può ritenersi sostenibile dipende dai coefficienti di impatto ambientale delle attività produttive e di consumo (il più noto è l’entità delle emissioni di CO2 per unità di reddito, ma la stessa logica si può applicare a ogni altro driver diretto della crisi, per esempio al consumo di materiali);
  2. bisogna sempre ragionare sulle condizioni che complessivamente, di volta in volta, in ragione di questo o quel progresso, si vengono a creare, consapevoli del fatto che il punto di vista della critica è tipicamente quello dell’intero (sempre, ma a maggior ragione nel caso del Sistema-Terra).

Entrambi gli aspetti tornano a dire che la comprensione della crisi ecologica e delle possibilità di uscirne può ben giovarsi dello sviluppo di un certo ‘gusto’ per i numeri, come quelli grazie ai quali le scelte si presentano infine in termini stringenti, e proprio per questo davvero significativi: i numeri e le formule, insomma, come sollecitazione e banco di prova dei ‘valori’; il piano positivo come terreno solido di quello normativo.

4. Perché si parla troppo poco degli effetti che la crisi ecologica produce nella carne viva dei popoli e delle persone

Affinché le cose acquistino rilievo bisogna nominarlemetterle a temadocumentarle e, tutte le volte che sia il caso, sforzarsi di quantificarle. Per questo colpisce che gli aspetti ‘naturalistici’ della crisi ecologica ricevano molta più attenzione mediatica e scientifica dei motivi di sofferenza che essa impone ai popoli e alle persone. In tal modo, argomenti cruciali, dei quali in primis dovrebbe alimentarsi la lotta contro il degrado dei sistemi ecologici, finiscono per restare sullo sfondo, quasi potessero essere dati per scontati, mentre ai nostri occhi meritano senz’altro sviluppi espliciti, autonomi e ‘insistiti’.

Del resto non soltanto per ragioni logico-assiologiche, ma anche per evitare di consegnare la crisi ecologica a una visione generica, di tipo ‘universalistico’. Senza dubbio, in un modo o nell’altro, il degrado dei sistemi ecologici ci riguarda tutti, ma questo non autorizza in alcun modo a mettere tra parentesi le differenze di più e di meno, né a trascurare il fatto che la loro effettiva ampiezza, e durezza, può emergere soltanto nello spazio concettuale dello ‘sviluppo umano’, vale a dire delle diverse condizioni esistenziali che le persone sperimentano nelle diverse parti del mondo e ai diversi gradini di ogni società.

5. Perché Capitalocene è un termine inascoltabile, ma del capitalismo, pure, è il caso di parlare. Quindi anche Antropocene ha i suoi difetti

Sotto accusa, quadro si parla della crisi ecologica, non può esservi altro che l’eccessiva pressione antropica che oggi misuriamo. Di tale eccesso bisogna allora individuare la radice – e noi, per questo aspetto, vogliamo aggiungere una voce al coro, non foltissimo, di quanti puntano il dito sulla natura “smisurata e smodata” (Marx) del movimento di autoespansione del denaro (l’‘accumulazione’) iscritto nel cuore del capitalismo. Diversamente, non si spiegherebbe l’assillo della crescita – l’imperativo di aumentare all’infinito e in modo esponenziale il flusso dei beni e dei servizi disponibili come merci – nel quale la crisi ecologica incontra il suo motivo più profondo. Non per questo parleremo di Capitalocene, come alcuni propongono di fare. Ma neppure Antropocene incontra i nostri favori, appunto perché oscura il nesso tra il ‘demone’ dell’accumulazione e la propensione a violare i planetary boundaries che deve stare al centro della riflessione.

Una voce in più, abbiamo detto – ma non senza un timbro proprio, del quale, tra l’altro, fa parte il proposito di tenere insieme radicalità e fattività. In questo senso, conviene dire a chiare lettere che si tratta di uscire dalla logica del capitalismo, cioè dalla precedenza del mercato su ogni altro tipo di rapporto, e che in questo senso, però, anche realizzazioni ‘locali’, che si moltiplichino su base decentrata, possono assumere elevati valori reali e rappresentativi. Così è, per esempio, nel caso delle varie esperienze di ‘comunità’, o ‘associative’, o comunque radicate nei mondi della vita quotidiana e nella società civile, alle quali alcune delle attuali linee di tendenza dell’evoluzione tecnologica non mancano di fornire idonee condizioni di possibilità. Di qui, da parte della nostra rivista, una peculiare attenzione alla dimensione delle iniziative dal basso e alle loro storie – unita al tentativo di leggerle in chiave evolutiva.

6. Per mostrare i legami tra cose che sembrano lontane, per esempio tra il must della sostenibilità e l’idea di un reddito di base

A dire il vero, se la questione della crescita domina in lungo e in largo il discorso pubblico sull’economia, non è soltanto a causa degli obiettivi di accumulazione custoditi dalle imprese capitalistiche e dai mercati finanziari, ma anche in virtù del suo collegamento con questione dell’occupazione, con la necessità, a sua volta assillante, di ‘creare posti di lavoro’. In proposito, non basta obiettare che da tempo gli aumenti del Pil hanno cessato di garantire condizioni di partecipazione al lavoro e di distribuzione dei redditi che superino almeno il test della decenza. Un rilievo del genere è ben giustificato, ma non toglie (casomai conferma) l’urgenza del problema – né si può dire che l’uscita dall’assillo della crescita aiuti di per sé a risolverlo.

È questo uno dei principali aspetti per i quali l’affrontamento della crisi ecologica non può essere tenuto nei confini di un discorso ‘ambientalista’ (cfr. punto 1): come la sostenibilità implica una riflessione sul tasso di crescita del sistema, quest’ultima implica una riflessione sulla sua configurazione economico-istituzionale. E nella fattispecie, per affrontare le questioni della partecipazione al lavoro e della distribuzione del reddito, indubbiamente cruciali, la parola d’ordine da adottare non è ‘più crescita’, bensì una riflessione di ampio respiro, e di nuovo schietta, spregiudicata, sul tema del tempo di lavoro, inclusiva dell’idea di un reddito di base degno di questo nome (universale e incondizionato), da riguardare appunto come una cospicua innovazione delle regole che governo l’intero corso delle attività economiche.

7. Per fare la prova di coltivare un rapporto maturo con i frutti del progresso tecnologico e scientifico

In questo caso, il maggiore motivo di interesse consiste nel vedere da vicino come la complessità dei sistemi ecologici abbia ragione della presunzione del sapere che forma il nucleo essenziale di ogni scientismo, e che neppure è estranea alla volontà di dominio sull’ambiente che ci ha portato a violare i planetary boundaries. Appunto per questo le questioni di natura ecologica offrono l’opportunità di sviluppare un rapporto maturo con il sapere scientifico – di acquistare confidenza tanto con i suoi progressi e le sue conquiste, quanto con i limiti e i motivi di ‘umiltà’ che esso stesso, nelle sue espressioni più avvertite, rinviene al proprio interno.

Maturità, inoltre, nel caso della tecnologia, significa anche il superamento di una mentalità spontaneamente propensa alla scelta di soluzioni complesse, depositarie di saperi altamente specialistici, perlopiù consegnate a strutture di grandi dimensioni, quasi che tali caratteristiche costituiscano di per sé fattori di pregio e di superiorità. In realtà, per molti versi, la stessa evoluzione tecnologica porta in primo piano la possibilità di soluzioni relativamente semplici, alla portata delle capacità gestionali dei diretti interessati (famiglie, nuclei abitativi, comunità locali). E però, da un punto di vista culturale, bisogna rappresentarsi il compito di fornire a tali approcci un pieno riconoscimento, che ancora manca, di appropriatezza e di dignità.

8. Perché dove non arriva la scienza può arrivare l’arte

Si può sostenere che considerazioni di tipo ‘utilitaristico’ forniscono al rispetto dei planetary boundaries incentivi meno forti di quanto, a ragionare convenzionalmente, verrebbe fatto di pensare. E però c’è da chiedersi se un affrontamento finalmente convinto della crisi ecologica non abbia a bisogno del senso alto e intrinsecamente positivo di un ‘bene’ da proteggere (o ritrovare) come parte essenziale, non sostituibile, del tipo di vita che vogliamo (poter) vivere. Se così stanno le cose, si capisce come l’arte sia davvero una risorsa preziosissima – dacché, del bene in questione, può esprimere in modo massimamente intenso tanto la mancanza quanto il desiderio, mentre la riflessione sull’arte può portare l’una e l’altro al più conveniente grado di lucidità.

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