Uno spettro si aggira per l’Europa, e non solo: la stagnazione secolare. L’espressione, coniata nel 1938 dall’economista Alvin Hansen, è stata riattualizzata da Lawrence Summers, già segretario al Tesoro negli Stati Uniti. Felice Roberto Pizzuti l’ha usata nel «rapporto sullo Stato sociale 2017» – giunto alla XII edizione, edito da Sapienza Università Editrice e presentato ieri alla facoltà di economia a Roma – per descrivere le conseguenze della «seconda grande recessione» esplosa nel 2007-2008.
Il ritorno alla crescita, rivendicata dalle principali istituzionali economiche globali e dai governi, non sembra produrre significativi passi in avanti in termini di aumenti di salari e di produttività, mentre la ripresa dell’occupazione avviene attraverso la moltiplicazione del precariato, utile a nascondere agli occhi delle statistiche l’anomalia di una «crescita senza occupazione fissa».
«STAGNAZIONE SECOLARE» è un’espressione utile per descrivere lo squilibrio prodotto all’eccesso di risparmio rispetto al drastico calo degli investimenti che spinge in basso il tasso d’interesse reale.
Oggi, anche a causa della «trappola della liquidità» prodotta dalle politiche di allentamento monetario («Quantitative Easing») intraprese dalle banche centrali (e dalla Bce in Europa) e dall’impiego restrittivo della politica fiscale, la domanda è scoraggiata.
Il progetto, enunciato anche dall’ultimo G7 dei ministri dell’economia a Bari, di rilanciare la crescita partendo da una maggiore «inclusione sociale» è scarsamente credibile perché permangono le cause che hanno portato la crisi: oltre alle politiche di consolidamento fiscale, c’è l’idea di uno sviluppo basato su esportazioni, bassi salari e avanzi commerciali.
Una visione incardinata nella tradizione ordoliberale tedesca che continuerà a dettare legge anche dopo quest’anno elettorale. La strategia è chiara, e tremenda.
I paesi, come l’Italia, che l’hanno adottata sin dagli anni Novanta si troveranno, tra pochi anni, in una situazione perfettamente descritta nel rapporto: legioni di lavoratori poveri, precari e discontinui con poche, o nessuna tutela oggi, trasformati in schiere di pensionati impossibilitati a sopravvivere domani, quando avranno superato i 70 anni. E dovranno, non si sa come, continuare a lavorare.
Il rapporto espone, in maniera cruda, le conseguenze della riforma Fornero: oggi i giovani sono più disoccupati degli over 50, anche a causa del Jobs Act, dovranno lavorare più a lungo precariamente e saranno incapaci di garantirsi una pensione privata integrativa. Davanti alla realtà materiale svanisce l’utopia neoliberale del soggetto-impresa, pilastro delle riforme previdenziali e del mercato del lavoro.
Siamo seduti su una bomba sociale e lo ignoriamo.
LA SOLUZIONE, si sostiene nel rapporto, è «ampliare e ridefinire il ruolo del pubblico». Il recupero di una politica economica potrebbe sopperire agli squilibri del mercato, adottando un welfare mirato a una redistribuzione del reddito e una politica degli investimenti verso ricerca, innovazione e sviluppo.
Obiettivi mancati dal piano Juncker e che restano sullo sfondo della vagheggiata riforma dell’Ue «a due velocità». Soluzioni di ben altro rilievo istituzionale, e costituzionale avrebbe bisogno un’Unione Europea.
IL «REDDITO MINIMO GARANTITO» è una delle soluzioni sostenute dal rapporto. Si tratta di un argomento ancora spinoso per la sinistra che lo confonde con la sua trattazione liberista.
In questa chiave l’erogazione del reddito avrebbe «un effetto diseducativo sui comportamenti individuali e della crescita collettiva». Si tratterebbe di una «prestazione assistenziale» mentre il reddito è «uno stimolo alla domanda» per liberare la persona dal ricatto del precariato e per «sostenere la crescita e l’occupazione» soprattutto quando le tendenze depressive dell’economia sono così forti.
Una misura assente in Italia, un paese che soffre della frammentazione degli ammortizzatori sociali e degli interventi contro la povertà. Una frammentazione, sostiene il rapporto, confermata anche dal Reddito di inclusione (Rei) approvato dal governo Gentiloni, per di più sottofinanziato (1,7 miliardi, ne servirebbero almeno 7 all’anno) e ispirato a logiche workfariste e selettive.
A questo bisogna aggiungere un’altra peculiarità italiana: quando la crisi si è fatta più dura il Welfare è stato tagliato: il fondo delle politiche sociali è passato dal miliardo del 2004 ai 278 milioni del 2016. E, ancora oggi, non c’è certezza sul suo rifinanziamento.