Primo maggio: la festa del lavoro che non c’è – Il lavoro deve tornare a essere un diritto umano

1 maggio 2019

“Senza il diritto al lavoro la persona perde la sua dignità”, affermava Stefano Rodotà. A rileggerle oggi queste parole suonano come schiaffi. In Italia, il 5% più ricco degli italiani è titolare da solo della stessa quota di patrimonio posseduta dal 90% più povero e  il 20% più ricco possiede il 72% del patrimonio totale, mentre il 60% più povero ha appena il 12,4% della ricchezza nazionale. L’aumento della povertà, dopo il 2008, ha contribuito ad accrescere la disparità tra il 20% più ricco e il 20% disagiato, in termini di ricchezza, redditi e consumo. L’Italia è uno dei Paesi dove il rapporto tra ricchezza aggregata totale e il totale dei redditi prodotti ogni anno è tra i più elevati al mondo, una delle nazioni a più elevata intensità capitalistica, dove la ricchezza vale molto più del reddito. E il grande assente nel dibattito politico attuale, alle porte delle elezioni europee, è proprio il tema del lavoro. L’Italia si trova in basso alla classifica dei paesi europei per tassi di occupazione. Un giovane su tre non ha un posto. In 10 anni raddoppiati i sottoccupati. Il 25% ha un impiego inferiore al titolo di studio.

Viene da pensare alla Convenzione Internazionale sui diritti economici, sociali e culturali delle Nazioni Unite che  fa equivalere il lavoro a un diritto umano. Se si considerasse il lavoro come diritto alla dignità, così come sancito dalla nostra Carta costituzionale (articolo 1) che fonda l’ordinamento democratico sul principio-valore del lavoro, si eliminerebbe di conseguenza il lavoro precario, mal pagato, non sicuro, usurante e che provoca problemi di salute.

Un primo maggio nostalgico, che rinvia alla necessita di una produzione legislativa che non abbia più riguardo ai sussidi alla povertà, così come il Reddito di Cittadinanza, ma che capisca la necessità di incentivare la libertà della scelta lavorativa come misura di contrasto dell’esclusione sociale e della ricattabilità dei soggetti in difficoltà, così da garantire la “congruità dell’offerta di lavoro” e non “l’obbligatorietà del lavoro purché sia.

Le misure messe in campo fino ad oggi hanno allargato la distanza tra ricchi e poveri, hanno reso più precario il lavoro, più forte lo sfruttamento e la ricattabilità, intensificando la guerra tra poveri scatenata scientificamente dalla violenza del linguaggio. A tutto questo abbiamo il dovere, il diritto e la responsabilità di ribellarci, continuando a organizzarci, rafforzando le nostre alleanze su proposte concrete in grado di sconfiggere disuguaglianze ed esclusione sociale, raccontando la verità anche quando è scomoda.

Come cittadini abbiamo un obbligo, sancito dall’articolo 2 della Costituzione: la solidarietà. Il Governo ne ha un altro: lavorare per rimuovere gli ostacoli che limitano libertà e uguaglianza impedendo lo sviluppo e la partecipazione di tutti alla vita del paese (articolo 3).

In gioco non c’è solo il diritto a un lavoro dignitoso, ma il diritto all’esistenza di tutti e di tutte.

Rete dei Numeri Pari 

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