Uno studio dell’Università della Tuscia svela per la prima volta il peso ecologico del settore: in Lombardia per il solo bestiame si consumano il 140 per cento delle risorse agricole. E intanto, in Europa si vota se dare un’impronta green ai fondi destinati a questi due settori. L’indagine dell’Unità Investigativa di Greenpeace Italia
Un’Italia non basta. Stiamo producendo troppo e, così facendo, prosciughiamo le risorse naturali delle generazioni a venire. Allevamenti intensivi e agricoltura stanno consumando una volta e mezza le risorse naturali dei terreni agricoli italiani. A rivelare per la prima volta questo deficit uno studio dell’Università degli Studi della Tuscia che, insieme a Greenpeace Italia, si è interrogata sulla reale sostenibilità degli allevamenti italiani. Uno studio ancora più rilevante perché pubblicato a ridosso della riforma della PAC (Politica Agricola Comune ). Nei prossimi giorni, infatti, il Parlamento europeo voterà se dare un’impronta green ai finanziamenti pubblici ad agricoltura e allevamenti o mantenere il sistema produttivo attuale a favore di allevamenti intensivi e produzione di mangimi. Si tratta di decidere la destinazione del 38% del budget dell’Unione europea.
«Ad oggi un terzo dei fondi PAC finisce nelle tasche di appena l’1 per cento delle aziende agricole europee mentre tra il 18 e il 20% del budget annuale dell’Ue è destinato ad allevamenti intensivi e mangimistica – commenta Federica Ferrario, responsabile Campagna Agricoltura e Progetti Speciali di Greenpeace Italia – Chiediamo che il prossimo voto del Parlamento europeo segni un’inversione di rotta: meno fondi agli allevamenti intensivi e più risorse per una riconversione ecologica del settore».
Ma al nostro territorio conviene che l’Italia continui ad investire fondi pubblici negli allevamenti intensivi? La nostra agricoltura e la nostra zootecnia sono sostenibili? Le risposte a queste domande si trovano proprio nel lavoro dell’Università della Tuscia che, per la prima volta, ha calcolato se l’Italia possa permettersi il numero di capi allevati o se vacche e suini stanno silenziosamente erodendo le nostre risorse naturali.
Gli allevamenti consumano il 39% delle risorse agricole.
«In Italia il sistema agricolo e quello zootecnico sono nel loro insieme insostenibili e creano un deficit fra domanda e offerta di risorse naturali». Non lascia dubbi Silvio Franco, docente del dipartimento di Economia, Ingegneria, Società e Impresa dell’Università della Tuscia e autore dello studio . Infatti, l’impatto ambientale dei due settori «è pari a una volta e mezza le risorse naturali messe a disposizione dai terreni agricoli italiani».
Il metodo applicato è quello dell’impronta ecologica, un indicatore che stima l’impatto di un dato settore in rapporto alla capacità del territorio di assorbirne le emissioni (biocapacità). In questo modo, si riesce a calcolare quanto ogni settore sia sostenibile.
Nello studio della Tuscia la stima è “conservativa” perché non tiene conto dell’impatto ambientale delle coltivazioni destinate ad alimentare il bestiame né dell’import di mangimi. Eppure, anche prendendo in considerazione le sole emissioni derivate da deiezioni e fermentazione enterica, gli allevamenti utilizzano il 39% delle risorse agricole italiane.
Ci vorrebbe una Lombardia e mezza
Ancora maglia nera alla Lombardia, già denunciata in una precedente inchiesta di Greenpeace . In Lombardia, infatti, la zootecnia sta divorando il 140% della biocapacità agricola della regione. Una battaglia, quella per la sostenibilità degli allevamenti lombardi, persa in partenza, visto che la regione dovrebbe avere una superficie agricola di quasi una volta e mezzo quella attuale per assorbire le sole emissioni degli animali allevati sul suo territorio. «I dati sono emblematici – commenta Silvio Franco – ed evidenziano cosa accade quando si registra un’elevata densità di capi in un territorio con limitata bioproduttività». Tale impatto, si precisa, «risulta oltre un quarto di quello nazionale e contribuisce per oltre il 10% nel determinare l’insostenibilità complessiva dell’agricoltura italiana».
Oltre al caso limite della Lombardia spiccano le alte percentuali di Veneto (64%), Piemonte (56%) ed Emilia-Romagna (44%). Qui le cifre sono solo all’apparenza più contenute: l’impatto risulta inferiore solo perché la superficie agricola è molto estesa. Da notare che più della metà dell’impronta ecologica del settore zootecnico dipende quindi dalle regioni del Bacino Padano. Dando uno sguardo al sud, prima per consumo tra le regioni del Mezzogiorno è la Campania (52%).
Risorse rubate alle generazioni future
Com’è possibile che agricoltura e allevamenti consumino più risorse di quelle presenti nel territorio? Da dove le prendono? «Le sottraiamo alle generazioni future – precisa il curatore dello studio – Il processo è semplice: stiamo immettendo nell’ambiente più emissioni e scarti di quello che l’ambiente è in grado assorbire, quindi stiamo regalando a chi verrà dopo di noi una serie di problematiche ambientali senza dare loro le risorse per riuscire a gestirle».
Il nostro impatto sull’ambiente potrebbe cambiare se consumassimo meno prodotti di origine animale, come dichiara Adrian Leip, dell’Unità Food Security del Centro comune di ricerca della Commissione europea (JRC) : « Studi fatti finora mostrano come le tecnologie che abbiamo a disposizione nel settore allevamenti non saranno sufficienti per rispondere alle ambizioni di riduzioni di effetto serra». Spiega Riccardo De Lauretis, responsabile dell’area emissioni e prevenzione dell’inquinamento atmosferico dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA): «Nell’industria, per esempio, si possono fissare dei limiti e rendere obbligatorie specifiche tecnologie per abbattere le emissioni. Al contrario, è più difficile controllare gli allevamenti».
Tra le soluzioni per limitare i danni di un settore che si sta mangiando, è il caso di dirlo, le risorse del territorio, secondo l’esperto di ISPRA sarebbe centrale un cambio del nostro stile di vita: «Una maggiore attenzione a salute e alimentazione può comportare un vero e proprio cambiamento di sistema, che porti a produrre, ma anche, a consumare meno».
Questo indispensabile cambiamento di sistema l’Europa lo ha messo in campo attraverso la Long term strategy, il piano strategico che ciascuno degli Stati membri è tenuto a sviluppare per illustrare i propri interventi in merito alla riduzione di emissioni di gas serra entro il 2050. «Le strategie devono essere presentate entro il primo gennaio 2020» è scritto sul sito della Commissione europea dove è possibile leggere le proposte di Germania, Francia, Belgio, Grecia, Olanda e Austria, solo per citarne alcune. Del piano strategico italiano, invece, ancora non c’è traccia.
Secondo fonti istituzionali contattate dall’Unità investigativa di Greenpeace, che preferiscono restare anonime, questo ritardo di dieci mesi sta creando tensioni tra i tecnici che dovrebbero scrivere le strategie e i ministeri che queste misure dovrebbero approvare (in tempi rapidi) e portare in Europa.
Bellanova: «Inquinare meno e consumare meno risorse»
Non trovando tracce della strategia italiana tra i documenti ufficiali inviati a Bruxelles, per capire il futuro del settore allevamenti ci siamo rivolti direttamente alla ministra delle politiche agricole alimentari e forestali Teresa Bellanova. «Migliorare le condizioni di allevamento e quindi di benessere degli animali è un obiettivo nazionale ed europeo, prova ne sia l’ampio spazio dedicato al tema nella riforma della PAC – precisa la Ministra – il punto non è solo lo spazio a disposizione per ogni animale, da aumentare, ma una visione della politica agricola con al centro: contrasto all’emergenza climatica, lotta al dissesto idrogeologico, salvaguardia della biodiversità. Abbiamo davanti un necessario percorso di transizione ecologica e i nostri allevatori sono già impegnati in questa direzione».
«È un processo da assecondare con politiche coerenti senza perdere di vista la tutela del reddito degli allevatori. Difendendoli dalla concorrenza sleale di Paesi dove si fa molta meno attenzione o si deforesta per allevare migliaia di capi. Anche se il patrimonio zootecnico italiano è molto limitato rispetto a Paesi come Olanda o Francia, dobbiamo lavorare per ridurre le emissioni di ammoniaca e di nutrienti nell’ambiente. In questa direzione vogliamo orientare le politiche, sostenendo il miglioramento genetico, l’introduzione delle tecniche dell’agricoltura e dell’allevamento di precisione, migliorando l’assistenza tecnica e la formazione dei nostri allevatori. Ed è quella della norma che abbiamo approvato di recente sull’istituzione di un Sistema di qualità nazionale basato sul benessere animale e sul miglioramento della sostenibilità dell’intero settore zootecnico».
Chiude la Ministra: «Le tecnologie e le strategie di miglioramento delle prestazioni ambientali degli allevamenti esistono. La strada non è solo ridurre la produzione: piuttosto produrre meglio e in modo più efficiente, inquinando meno e consumando meno risorse, valorizzando la capacità di assorbimento della CO2 atmosferica e sfruttando la possibilità di produrre energia in sostituzione di quella da combustibili fossili, la vera fonte di aumento della CO2 in atmosfera. Ed è quello su cui siamo impegnati con la Strategia agricola nell’ambito del Piano nazionale per la ripresa e la resilienza».
Anche il presidente della Commissione Agricoltura della Camera dei Deputati ,Filippo Gallinella, si è espresso sul futuro del settore, commentando uno degli emendamenti al voto europeo nei prossimi giorni, quello che punta a stabilire un limite di densità di animali per le aziende che ricevono i fondi pubblici. «Questo approccio è senz’altro corretto», dichiara Gallinella.
Gli fa eco Federica Ferrario di Greenpeace Italia: «È incoraggiante che sia sottolineata l’importanza di un emendamento che in Europa stiamo sostenendo con forza. Ma è necessario che anche nel nostro Paese i decisori politici guardino in faccia la reale sostenibilità del settore zootecnico». Continua Greenpeace: «Come sottolinea anche la ministra Bellanova serve una visione della politica agricola che ponga al centro il contrasto all’emergenza climatica, un percorso verso una transizione ecologica del settore è quindi necessario e urgente. Gli attuali livelli di produzione sono insostenibili per l’ambiente e poco remunerativi per tanti allevatori italiani. Le soluzioni tecnologiche non bastano, è ora di considerare seriamente una riduzione della produzione e del consumo di prodotti di origine animale, a vantaggio della qualità, anche ambientale».
L’appello dei gruppi ambientalisti sarà ascoltato nei prossimi giorni a Bruxelles? Nessuna risposta da chi, a breve, si occuperà proprio di votare la nuova PAC. «Vista la complessità e la delicatezza della materia siamo costretti a rinviare l’intervista», precisa il portavoce di Paolo De Castro, europarlamentare del PD, membro della Commissione per l’agricoltura e lo sviluppo rurale ed ex ministro delle politiche agricole. La votazione «segnerà sicuramente un momento di svolta per il futuro della Politica Agricola Comune», anticipa De Castro. Ma di quale svolta si tratti e di che posizione prenderà in nome degli italiani, il politico non vuole parlare.
Non resta che aspettare il voto europeo di questi giorni per sapere se vi sarà una svolta green del settore allevamenti. E quindi a cosa sarà destinato il 38% del budget europeo.