Le disuguaglianze salariali e la cultura del merito

La meritocrazia è la base ideologica delle disuguaglianze

31/03/2023 di   – La città futura

Le differenze sociali ed economiche risultano in costante aumento, ma a differenza del passato la disuguaglianza non indigna, non scatena proteste, viene tacitamente accolta, e subita, come se fosse un evento ineluttabile.

La cultura del merito è sempre in voga e ogni ragionevole dubbio incontra montagne di menzogne subculturali difficili da superare.

La parola meritocrazia, ringraziamo Salvatore Cingari dell’università di Perugia, autore di un bel libro [1] edito qualche anno fa, è composta da due parole, una di di origine latina, meritus, e una di origine greca, kratos.

Potere al merito e diritti esigibili su base selettiva secondo il sistema delle carriere aperte ai talenti o al rapporto tra opportunità lavorative e abilità innate; o, ancora, al risultato come base della diseguaglianza nelle società industriali.

La nozione di meritocrazia oggi, soprattutto con l’avvento del neoliberismo, ha acquisito un carattere positivo, quando in origine, nell’Inghilterra degli anni Cinquanta, era invece diametralmente opposto. La correlazione fra 4 indici di diseguaglianza – reddito, patrimonio, tipo di lavoro, tipo di educazione – erano sinonimo di una barriera di classe che assegnava potere alle élite e ai ceti abbienti.

Oggi invece la meritocrazia è divenuta il faro guida per la pubblica amministrazione. Il merito è strumento iniquo e vessatorio per distribuire in termini diseguali il salario, assegnando opportunità economiche e di carriera a gruppi ristretti scelti di solito per la cieca obbedienza al potere datoriale, alla disponibilità di rinunciare al proprio tempo libero, in nome della disponibilità non retribuita fino a ricoprire mansioni ulteriori a costo zero o irrilevante.

La meritocrazia, affermandosi, ha costruito l’ideologia della tacita accettazione della disuguaglianza economica e sociale, per questa ragione nella società contemporanea non indigna quanto dovrebbe invece essere rifiutato culturalmente ed ideologicamente.

Questa lunga premessa si rende necessaria per comprendere anche la disuguaglianza salariale ormai imperante, acuita dalle privatizzazioni dei servizi. In un posto di lavoro, prendiamo ad esempio un ente locale, possono coesistere molteplici contratti di lavoro, da quello delle cooperative sociali destinato a educatrici del terzo settore, a cui viene affidata la gestione di nidi, refezioni e scuole dell’infanzia, fino al multiservizi scelto per quanti operano nelle pulizie e nei global service.

Poi c’è il contratto delle funzioni locali applicato ai dipendenti del Comune, tre contratti con Retribuzioni annuali lorde assai diversificate e differenze salariali consistenti che possono arrivare anche 300 o 400 euro al mese se prendiamo in considerazione il secondo livello di contrattazione, praticamente inesistente nel contratto collettivo nazionale di lavoro delle cooperative sociali e sovente anche nel multiservizi. E questi tre contratti prevedono orari settimanali che variano da 36 ore a 40 alle quali aggiungere altre in straordinario da garantire per l’erogazione dei servizi. Lo straordinario da volontario è divenuto quasi obbligatorio. A sancirlo anche alcuni contratti nazionali del settore privato.

Sempre nel medesimo Ente locale possiamo trovare altri contratti, ad esempio quello dell’agricoltura, per l’appalto del verde, fino agli interinali e alle partite Iva.

Parliamo di lavoratori e lavoratrici che fino a 50 anni anni fa, e forse meno, erano indistintamente inquadrati nel contratto nazionale degli enti locali. Potevamo trovare contratti a tempo indeterminato o determinato (in prevalenza stagionali) ma allora non esistevano differenze salariali marcate come oggi.

Recentemente dei ricercatori hanno studiato la dinamica salariale in alcuni paesi, Stati Uniti, Regno Unito, Francia e Germania tra il 1991 e il 2016 esaminando la disuguaglianza nelle ore lavorate e nei salari percepiti. Nei paesi dell’Unione Europea, da 30 anni, la tendenza dominante è quella già affermatasi negli Usa. Stesso discorso vale per la flessibilità oraria e le mansioni esigibili.

Quando la forza d’urto del movimento operaio è stata più forte, la disuguaglianza era combattuta e ridimensionata, quando invece il pensiero unico padronale ha avuto il sopravvento è venuta meno la critica e l’indignazione. 

Non si tratta solo di analizzare differenti lavori che in base alla specializzazione richiesta prevedono livelli salariali  e orari settimanali differenti: la tendenza diffusa è quella di ridurre il costo del lavoro alimentando la competizione fra i salariati, facendo passare piccoli incrementi stipendiali come risultato del presunto merito [2].

La disuguaglianza non è data solo dalla retribuzione in base alla quantità di ore lavorate. Si può anche ridurre l’orario settimanale incrementando lo sfruttamento e in taluni casi la produzione di plusvalore. Il mero dato quantitativo non aiuta a comprendere la dinamica della contrazione del potere d’acquisto e di contrattazione. La moltiplicazione dei contratti nazionali esistenti è stata alimentata negli anni liberisti nell’ottica di ridurre i costi della manodopera e la cultura del merito è stata la base ideologica indispensabile per affermare la strutturale diseguaglianza economica  e sociale.

Il capitalismo delle pari opportunità ha poi affermato il principio che ogni individuo possa aumentare il numero delle ore lavorate per accrescere il salario – da  fame – percepito. In teoria ci sarebbero anche leggi che limitano gli orari di lavoro giornalieri e settimanali ma questi limiti vengono aggirati attraverso le deroghe affermate nella contrattazione nazionale e di secondo livello.

L’uguaglianza salariale non è un retaggio del passato ma una necessità perché aumentare le ore lavorate per raggiungere uno stipendio dignitoso ha prodotto anche alcune piaghe sociali come infortuni, morti sul lavoro, malattie professionali, riducendo i tempi di vita a solo vantaggio di quelli lavorati. E lavorare di più per essere meno pagati ha anche ripercussioni negative sulle pensioni, contributi bassi e assegni previdenziali da fame alla soglia dei 70 anni di età.

La disuguaglianza non è data solo dalla disparità oraria ma dalla nascita di contratti che prevedono in partenza paghe orarie diversificateL’esempio prima riportato dell’Ente locale è emblematico di una situazione ormai diffusa e cogestita anche con il sindacato rappresentativo.

Possiamo anche comprendere che un medico possa guadagnare di più di un operaio ma se guardiamo i salari di talune professioni si evince che anni fa non esistevano differenze così marcate. Nel caso del personale sanitario sarebbe sufficiente guardare ai tanti interinali o ai dipendenti del terzo settore operanti nelle Residenze Sanitarie Assistenzali (RSA) per comprendere come sia proprio l’applicazione di molteplici contratti la causa della disuguaglianza diffusa anche per mansioni analoghe ma con differenti datori di lavoro.

Ridurre l’orario di lavoro a parità di salario è una rivendicazione importante, ma da unire a un’altra istanza, quella di porre fine ai contratti sfavorevoli che gli anni delle privatizzazioni hanno creato ad arte con la complicità dei sindacati rappresentativi, i quali, per accrescere il loro potere, non hanno esitato ad assecondare la contrazione del potere d’acquisto e contrattuale fino a sposare l’ideologia del merito.

 

Note:

[1]  S. Cingari, La meritocrazia, ed. Futura, 2020.

[2] Si veda Differenze internazionali nella disuguaglianza salariale maschile: istituzioni contro forze di mercato, Journal of Political Economy: Vol 104, No 4 (uchicago.edu), reperibile a questo link.

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