Scuola, tempo di bilanci e prospettive: per un 2022 all’insegna della mobilitazione

Dietro l’autonomia differenziata si nasconde la possibilità di trasformare tutto ciò che è pubblico in privato. Scuola compresa. La strada è una sola: la mobilitazione.

Marina Boscaino – Micromega –

Quando, nel 2019, insieme ad altri docenti, decidemmo di dar vita al Comitato per il Ritiro di ogni autonomia differenziata, l’unità della Repubblica e l’uguaglianza dei diritti, lo facemmo perché avevamo compreso che il progetto eversivo del regionalismo differenziato, reso possibile dalla Riforma del Titolo V del 2001 – quand’anche la scuola ne fosse stata esclusa – sarebbe stato ugualmente devastante: in termini di unità della Repubblica e di uguaglianza dei diritti, appunto. Era passato solo un anno da quando il Governo Gentiloni, il 28 febbraio 2018, a Camere sciolte e a quattro giorni dalle elezioni politiche, aveva siglato le pre-intese con le regioni capofila di quella che Gianfranco Viesti ha chiamato “La secessione dei ricchi”: Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna. Immediatamente dopo questo passaggio, ci eravamo costituiti – assieme ad altre associazioni – in un tavolo “scuola”, cui partecipavano anche sindacati di base e confederali: avevamo intuito – da quel poco che emergeva, dalle vaghe notizie che trapelavano (tutto l’intero processo è stato volontariamente secretato)  – che configurare venti sistemi scolastici differenti, liberi di decidere su tutte le “norme generali dell’istruzione” (dal reclutamento alla formazione, dalla valutazione alla attribuzione della parità ) avrebbe comportato, oltre alla dismissione del comma 2 dell’art. 3 della Costituzione, che prevede che la Repubblica abbia il compito di rimuovere gli ostacoli che impediscono l’uguaglianza sostanziale (e lo strumento più potente in questo senso è la scuola della Repubblica), anche lo sgretolamento della vera e propria spina dorsale del Paese – la scuola della Costituzione – che rischia di essere ridotta in briciole e sottomessa  a interessi particolari di ogni genere.

Il comma 3 dell’art 116 della Costituzione (revisionata nel 2001) prevede che le regioni a statuto ordinario possano chiedere potestà legislativa esclusiva fino a ben 23 materie tra cui, oltre la scuola, la sanità, le infrastrutture, i beni culturali, la ricerca scientifica, l’ambiente, la giustizia di pace e altre, altrettanto incidenti sulla vita di cittadine e cittadini. Sarebbe forse meno grave se – fatta salva la scuola – ambiente, sanità o infrastrutture divenissero regionali? Non si determinerebbe, comunque, una cittadinanza a marce differenti, fondata non più sul patto repubblicano, ma sul certificato di residenza. Insomma: dimmi dove vivi e ti dirò che diritti avrai? Non solo, dunque, la violazione definitiva dei principi di uguaglianza e solidarietà previsti dalla Carta; ma la frantumazione dell’unità della Repubblica, l’apertura di una breccia molto facile da allargare. All’orizzonte si profilano ormai venti “signorie” più o meno potenti, con servizi – ma anche diritti universali e garanzie – diseguali: cittadini e cittadine di serie A, B, e persino Z. Come tacere davanti ad una visione proprietaria e famelica, in cui nascere e vivere in una zona privilegiata sono rubricati come merito e diritto legittimo ad avere di più? Ecco le ragioni per cui abbiamo allargato il nostro raggio d’azione.

In seguito alle “prove tecniche” di autonomia differenziata che si sono concretizzate nella gestione della pandemia – in particolare nell’ambito di sanità e scuola, due delle materie più significative tra quelle rivendicate dalle regioni – anche alle notevoli inadempienze dei governi, che hanno lasciato la briglia sciolta alle pretese regionali, ai cittadini e alle cittadine italiani non può essere sfuggito il disastro che un ulteriore affidamento di materie importantissime potrebbe configurare. Non è stato sufficiente considerare come la regione Lombardia, la più ricca d’Italia, abbia risposto all’emergenza Covid-19 (dopo aver, negli anni precedenti, privatizzato il 40% della propria sanità) diventando – nel primo lockdown dello scorso anno – la zona del mondo che, nel rapporto tra area territoriale e numero di abitanti, è risultata quella con il maggior numero di decessi? Non ci ha forse colpito la “scuola à la carte” realizzata dal presidente della Regione Puglia, Emiliano, che ha lasciato un organo costituzionale (la scuola della Repubblica) alla mercé della scelta e dei desiderata degli “utenti”, liberi di decidere se mandare o no i figli a scuola? Non abbiamo forse compreso che un Paese a marce diverse – e, di conseguenza, con diritti diversi – rappresenta lo scenario più favorevole alla crescita, insieme alle diseguaglianze, del disagio, delle rivendicazioni localistiche e dell’individualismo?

Eppure il processo di autonomia differenziata va avanti; e va avanti, paradossalmente, persino in quelle regioni che – ne è prova la triste e paradigmatica vicenda del “federalismo fiscale” – sono state ormai notoriamente saccheggiate dalle regioni economicamente più avanzate; in cui la crisi, trovando terreno favorevole, morde più forte; in cui le mafie – che tutto avrebbero da guadagnare dalla cosiddetta “secessione dei ricchi” – hanno preso già tanto, così da allargare le proprie mire, riuscendo a diffondersi capillarmente su tutto il territorio nazionale, nessuna regione esclusa. Perché? La risposta è chiara: l’autonomia differenziata è potere. Potere economico e potenzialità di consenso. Perché la gestione di un appalto in proprio, frutta o può fruttare. Perché gestire la scuola significa mettere le mani su una platea numerosissima tra lavoratori, studenti e famiglie. E, al tempo stesso, significa imbrigliare il libero pensiero. Perché, dietro l’autonomia differenziata, si nasconde la possibilità di trasformare tutto ciò che è pubblico in privato: tutto ciò che è “pubblico” diventerebbe sinonimo di “regionale” e “privatizzato”, in una progressiva ma inesorabile corsa al ribasso per tutti e tutte, da Torino ad Agrigento, in termini di accesso ai servizi, alle tutele, ai diritti fondamentali e di livello dei salari. Sarà in grado di curarsi solo chi, dalla Calabria, potrà continuare a permettersi il “turismo sanitario” per andare al Nord, come già accade. E gli altri?

È evidente che non esiste una reale volontà di intervenire sulle diseguaglianze: lo prova la distribuzione dei fondi del PNRR. Lo prova il fatto che la determinazione del Livelli Essenziali di Prestazione (i famosi Lep), prescrizione costituzionale a carico dello Stato, inevasa da ben 20 anni, ancora prevista dalla Riforma del Titolo V, potrebbe avvenire sulla base della spesa storica. Lasciando a terra chi non possiede i numeri per puntare ad una reale perequazione. E, dunque, se a Reggio Calabria, gli asili nido sono 3 contro i 63 di Reggio Emilia le condizioni non muteranno quando saranno stabiliti quei livelli “essenziali”.  Se Reggio Calabria ha 3 asili nido, vuol dire che 3 gliene servono. E quand’anche fosse, perché Reggio Calabria dovrebbe accontentarsi dell’essenziale, cioè del minimo? Consentendo invece ad altri di raggiungere – anche attraverso l’ipotizzato trattenimento di una parte più o meno consistente del gettito fiscale regionale – livelli ottimali? Ha scritto il professore emerito dell’università degli studi Roma3, Luigi Ferrajoli: “I diritti sociali e civili, stabiliti in Costituzione come fondamentali, sono sottratti alla sfera della ‘decisione politica’, dato che essi individuano la ‘sfera del non-decidibile’, preclusa cioè alle decisioni della maggioranza del momento» (…). Un diritto fondamentale è tale in quanto spetta universalmente a tutte e tutti in eguale forma e misura, cosa che si concretizza in prestazioni equivalenti in termini qualitativi e quantitativi del medesimo diritto garantito”. È per questo che occorre rifiutare l’essenzialità e battersi per l’uniformità dei diritti, da Agrigento a Sondrio, su tutto il territorio della Repubblica: ce lo impone la prima parte della Costituzione.

Quest’anno, come da tre anni a questa parte, è stata annunciato nella Nadef l’inserimento in legge di Bilancio di un testo dal titolo: “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata di cui all’art 116, comma 3, Cost”. Collegare tale norma alla legge di Bilancio significa non solo sottrarla al dibattito parlamentare, blindandola; ma – soprattutto – negare la possibilità di ricorrere al referendum. La costanza con cui i governi – dal 2018 ad oggi e, dunque, giallorosso, giallorosa e governo “tecnico” Draghi – hanno pervicacemente usato questa carta, indica una inconsueta analogia di punti di vista sulla ineluttabilità della realizzazione del provvedimento; e rafforza il paradigma che tale realizzazione sia il più possibile autoritaria. Ne è prova la secretazione delle carte, compreso il testo stesso del collegato, di cui, nel momento in cui scrivo, 16 dicembre 2021, non si sa nulla e di cui non esiste una versione, ufficiale o no: i cittadini e le cittadine, e persino i parlamentari e le parlamentari, devono essere tenuti il più a lungo possibile all’oscuro di quanto accade nelle “segrete stanze”. Non a caso i testi delle pre-intese tra le tre regioni e il governo vennero occultati, finché non furono clandestinamente pubblicati dal sito Roars.

Quando, durante la scorsa primavera, qualcuno diceva che l’autonomia differenziata non era nei programmi del governo Draghi non teneva conto di una serie di elementi:

1) La nomina di Mariastella Gelmini a ministro per gli Affari Regionali e le Autonomie. La Gelmini – nota al mondo della scuola per il più impressionante taglio in quel settore operato nella storia repubblicana, che ha comportato l’attuale stato dello scuola pubblica, dal problema del precariato alle cosiddette “classi pollaio”, per non parlare della riduzione di alcuni saperi fondamentali – nel suo periodo di impegno presso la Regione Lombardia (una delle tre regioni che hanno già da tempo avviato concretamente il percorso dell’Ad) e come responsabile di Forza Italia in quella regione, è stata una delle più strenue sostenitrici della attribuzione alle regioni della potestà legislativa esclusiva su materie attualmente di legislazione concorrente Stato-regioni.

2) il governo di “unità nazionale” Draghi, con il suo mix di politici e tecnici, tutti o quasi sostenitori dell’autonomia regionale differenziata, offre a Salvini la possibilità di orientare a proprio vantaggio la questione (da sempre cavallo di battaglia della Lega), anche nella prospettiva del contrasto con il fortissimo presidente della regione Veneto, Zaia, che – come i colleghi Fontana in Lombardia e Bonaccini in ER – è uno dei 3 firmatari dei pre-accordi sull’autonomia differenziata, di cui si è detto.

3) Ancora sul fronte dei presidenti di regione, la proposta del presidente dell’Emilia Romagna, Bonaccini, uomo forte del PD, portavoce di una autonomia “gentile-soft-solidale-cooperativa-buona” (alcuni degli eufemistici aggettivi usati per rimarcare la “straordinarietà” della proposta della propria regione, la terza appunto nella triade delle bozze già sottoscritte) non è meno pericolosa delle precedenti; essa incombe e incalza nel panorama interno di un partito – il PD – in una fase molto particolare della sua storia e certamente la condiziona. È bene comunque ricordare che, nel 2001, fu il governo Amato a portare a conclusione l’iter della legge di revisione costituzionale. Gli allora DS, per rincorrere la Lega, misero mano ad una raffazzonata revisione del Titolo V (definita dal compianto Gianni Ferrara “un manifesto di insipienza giuridica e politica”), con le conseguenze nefaste di aprire un conflitto tra Stato e Regioni che ha tenuto occupata, e tuttora tiene occupata, la Corte Costituzionale per dirimere i conflitti di competenza.

4) il 18 febbraio 2021, a 5 giorni dall’insediamento del governo Draghi, il presidente della Regione Veneto, Luca Zaia, teneva a Venezia la prima riunione di insediamento del Comitato scientifico dell’Osservatorio regionale sull’autonomia differenziata, istituito con la legge regionale n. 44/2019: “Grande passo rispetto al Titolo V e verso la firma con il Governo”.

Insomma, i segnali c’erano tutti e oggi, con una estenuante continuità con gli ultimi due anni, ci troviamo a contrastare un inaccessibile collegato alla legge di Bilancio che si sta discutendo. Le azioni di mobilitazione sono e saranno d’obbligo. Forze sindacali, partiti politici, associazioni e alcuni parlamentari contesteranno la procedura, che in molti ritengono antidemocratica. C’è da credere che, comunque andranno le cose, questo odioso progetto ci terrà ancora impegnati.

La strategia dell’occultamento, del “non disturbate il grande manovratore “(alla quale purtroppo il popolo di questo Paese si sta assuefacendo) sta dando i propri frutti. Dell’autonomia regionale differenziata non sa nulla quasi nessuno: non ne sanno i parenti delle vittime del Covid; non ne sanno i parenti dei morti sul lavoro (quasi 800, dall’inizio dell’anno) e i lavoratori che vedrebbero – se l’autonomia differenziata passasse – una ulteriore restrizione di tutele e garanzie, nonché conseguenze che potrebbero portare alla fine del contratto collettivo nazionale; non ne sa chi prende il caffè al bar, il laureato, il tranviere, il portuale, il ricercatore. Non ne sanno nulla i docenti della scuola italiana, cui il ministro Bianchi propone i “patti di comunità”, accordi stretti tra scuole e realtà del territorio (“enti territoriali, terzo settore, imprese, mondo dell’associazionismo e delle professioni”), il tutto sostenuto “dalle risorse dei nuovi Fondi comunitari di cui potrà godere l’Italia nei prossimi anni”. Non è difficile immaginare che, nel solco di una seducente quanto ambigua idea di “territorio”, si nasconda l’ennesima virata verso la privatizzazione e la dismissione delle “norme generali” costituzionalmente determinate per concretizzare la “rimozione degli ostacoli” assegnata ad un organo costituzionale, la scuola della Repubblica.

C’è poi la questione degli ITS (Istituti Tecnici Superiori), sui quali questo Governo non a caso sta insistendo e su cui i fondi del PNRR sono fortemente concentrati. Il rinnovamento del sistema degli ITS è tra le riforme prioritarie su cui si fonderà lo sviluppo dell’intero sistema scolastico, come si evince dalle linee guida emerse dal primo incontro della cabina di regia sul PNRR, presieduta da Mario Draghi. La riforma del sistema, cui sono destinati 1,5 mld, rappresenta una vera e propria privatizzazione di un pezzo del sistema formativo nazionale. I percorsi della formazione tecnica superiore vengono sostanzialmente legati alle imprese e al tessuto industriale, che diventano di fatto il vero soggetto di riferimento del sistema. Il corpo docente vede affiancati docenti di quella scuola secondaria che è ente di riferimento dell’Its coinvolto e docenti che provengono anche per il 70% dal mondo del lavoro (le norme prevedono che siano almeno il 50%). Dopo e in continuità con l’alternanza scuola lavoro e le sue declinazioni, ecco un nuovo attacco del privato al sistema formativo nazionale, la scuola-industria, che rappresenta – insieme alla riforma dell’istruzione tecnica e professionale – un passaggio ulteriore per la subordinazione dell’istruzione alle esigenze del mercato del lavoro, con la conseguente differenziazione territoriale che ne deriverà. Sono solo due esempi, dei tanti che potremmo fare sulla scuola.

Nonostante il provvedimento non sia ancora passato, enormi – sempre più enormi dopo il Covid – sono le differenze tra regione e regione. L’autonomia differenziata è già tra noi: è di poco più di un mese fa l’audizione della Corte dei Conti presso la Commissione parlamentare per l’attuazione del federalismo fiscale. Tra Nord e Sud sono molte le differenze nella spesa pro capite: al Nord si spendono in media 100 euro in più a cittadino rispetto al Sud. E per la Corte gli indici di valutazione dei LEA (i livelli essenziali di assistenza), secondo la vecchia e la nuova disciplina, sono una testimonianza delle differenze tra i sistemi sanitari regionali. In Italia ci si ammala di cancro più al Nord, ma si muore più al Sud; la regione Lombardia continua a privatizzare la sanità (anche attraverso la riforma Moratti, appena approvata) e chiede voracemente ulteriore autonomia, e su 20 materie. Tante le contraddizioni e i campanelli d’allarme, nel paese della Tav e della linea unica Corato Andria, con il suo carico di vittime pendolari. Secondo gli ultimi dati Istat, nel 2020 i cittadini e le cittadine dai 15 anni in su con un titolo di scuola primaria o senza nessun titolo di studio erano il 13,95% al Nord, il  14% al centro, il 19,39% al Sud; i diplomati il 38% al centro e al Nord, il 33% al Sud; i laureati il 15% al Nord, il 18% al centro e il 12% al Sud; su un 13% di casi di abbandono tra i 18 e i 24 anni sul territorio nazionale, l’11% sta al Nord, l’11,5% al Centro, il 16,3% al Sud.

Come rispondono i governi regionali? Veneto, Emilia-Romagna e Lombardia continuano a chiedere con insistenza autonomia differenziata e quasi tutte le altre regioni hanno nel cassetto delle bozze di intesa da presentare al momento opportuno.

Le prospettive? Sinceramente sconfortanti. Ecco un esempio, tra i tanti, se ancora fosse necessario.
Il 17 novembre 2021 è stato approvato dalle commissioni della Conferenza delle Regioni e delle province autonome Istruzione, Università e Ricerca (X commissione) e Formazione e Lavoro (XI), riunite in sede congiunta al salone Orientamenti di Genova, la Carta di Genova: un documento di proposta programmatica, da parte degli assessori regionali, per la riforma dell’orientamento a tutti i livelli.

Il documento, condiviso all’unanimità, si basa su una serie di richieste: didattica orientativa a partire dalla scuola primaria (e non solo dalla secondaria, corsivo mio); inserimento nell’organico delle scuole di ogni ordine e grado del profilo professionale dell’orientatore; formazione iniziale e in servizio dei docenti per attrezzarli opportunamente alle attività di orientamento trasversali e funzionali alla didattica orientativa; evoluzione del Ptco (le attività di alternanza scuola lavoro) con logica orientativa e interattiva con le realtà del territorio; moduli di orientamento con attività laboratoriali di almeno 30 ore in tutti i livelli di istruzione; rafforzamento dei piani formativi individualizzati (Pif) in linea con quanto previsto per gli istituti di formazione professionale. Questi i punti dirimenti. Il mercato del lavoro si insinua, in modo sempre più capillare, nella scuola (non più) della Repubblica; con la sua retorica seduttiva e “ragionevole” scalfisce, anno dopo anno, l’impianto culturale e politico del progetto dei costituenti.

Non sono bastate le prove tecniche di Jobs Act rappresentate dall’alternanza scuola lavoro. Poiché le parole sono pietre e il messaggio del provvedimento della Buona Scuola di Renzi era troppo spudorato, hanno attenuato il concetto, facendolo diventare PCTO (percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento); scoprendo che proprio l’orientamento sarebbe stata la chiave di volta per aprire la porta della scuola della Repubblica e saccheggiarne il prezioso contenuto. Per essere efficace, l’opera indefessa e costante deve partire sin dalle scuole elementari (sì, avete letto bene): orientare al lavoro i bambini che avrebbero un tutor sin dalle elementari, con 30 ore impartite da figure professionali e rafforzamento dei piani formativi individualizzati. Il ministro Bianchi ha plaudito al documento: “Le imprese oggi hanno bisogno di persone che siano specializzate ma anche molto flessibili e che siano creative, perché siamo in una fase di straordinario cambiamento. Il modo migliore è accompagnare i ragazzi, sin dalle scuole medie, a vedere cosa e a come si stanno trasformando le imprese”. Il progetto, è evidente, ha molto a che fare con la regionalizzazione. Che altro dire?

Una cosa da dire c’è: una speranza e – sempre – una prospettiva. Un nesso indissolubile esiste tra democrazia e scuola della Repubblica – che Piero Calamandrei ci ha insegnato ad amare, considerare e tentare di proteggere come organo costituzionale dalle deviazioni innumerevoli e dalle ingiurie che gli sono state inflitte negli ultimi 25 anni. Sono di Concetto Marchesi, insigne docente e studioso di Letteratura latina, che prese parte alla Resistenza e venne eletto all’Assemblea costituente (1946-1948) in rappresentanza del Partito comunista italiano, le parole con cui voglio chiudere. Perché vibrano di attualità a più di settant’anni di distanza. “L’istruzione — sia primaria, sia media, sia universitaria — non è problema di regioni o di comuni o di enti privati. È problema nazionale. La deficienza di una parte si fa sentire sull’altra; come l’analfabetismo del Mezzogiorno è gravato a lungo e grava tutt’ora sulle altre zone d’Italia. Ciò che è malattia di una parte è anche malattia del tutto: se si vuole che l’Italia resti o divenga veramente un tutto, non basta che alcune regioni abbiano possibilità di rendere fiorenti i loro istituti educativi, se altrove l’intelligenza si fa sorda e pigra e vuota e la mente resta ignara e incapace di riflessione. L’elettore più ignorante e più rozzo vale quanto il più elevato: e la sorte del Paese è affidata alla stolidezza quanto alla consapevole intelligenza. Non temete l’accentramento, onorevoli colleghi. La scuola, quando è buona e funziona bene, è naturalmente decentrata. E il decentramento non dipende né dal comune né dalla regione né dallo Stato: dipende dal maestro. Chi decentra veramente la scuola e ne fa un organismo vivo e perciò distinto dagli altri organismi consimili è il maestro, cioè l’individuo, cioè la persona umana”.

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