PER APPROFONDIRE

Non lasciamoci soli Casal Bruciato e Torre Maura: continuiamo a illuminare i territori abbandonati

8 maggio 2019

Dopo gli episodi di Torre Maura, a Roma continuano le tensioni e le aggressioni anche in un’altra periferia: Casal Bruciato. Un gruppo di cittadini insieme ai militanti di CasaPound da lunedì sera protesta contro l’assegnazione di una casa popolare a una famiglia rom. Urla, insulti, blocchi, minacce di stupri e di morte, che hanno costretto la famiglia assegnataria, quindi legalmente autorizzata, a entrare nell’alloggio passando dall’ingresso laterale scortata dalle forze dell’ordine.

In un clima politico che di fatto autorizza certe violenze, le forze dell’ordine nulla hanno obiettato persino di fronte all’istallazione di un gazebo da parte di militanti di Casapound – forza dichiaratamente neofascista – accanto al portone di ingresso dello stabile.

Non è un caso lo scoppio di questi episodi nella capitale d’Italia, come non sono un caso l’assenza di reazioni e risposte adeguate dei governanti: nessuna condanna per razzismo, violenza, impedimento di un’operazione legale e nessun investimento per contrastare disuguaglianze ed esclusione sociale, causa principale del peggioramento delle condizioni materiali di un terzo degli italiani.

Proprio come per Torremaura, anche a Casal bruciato spostare il focus su un nemico facilmente individuabile appare più immediato e utile al progetto politico di chi governa. Rom, stranieri, migranti, emarginati, poveri sembrano il capro espiatorio perfetto per fare incetta di voti facendo leva sulla rabbia dei quartieri abbandonati. Il vero problema è invece legato all’aumento senza precedenti di disuguaglianze, povertà ed esclusione sociale. Una ferita profonda, aperta da oltre 10 anni, che non si accenna a ridurre, anzi. Una ferita colpevolmente non curata, infettata da anni di arroganza, incapacità e ipocrisia delle classi dirigenti politiche che si sono alternate al governo. Nessuna esclusa. Perché dalle scelte fatte da chi ha governato è possibile capire chi davvero comanda e chi sono i veri responsabili del clima di paura, disperazione e violenza che si respira nelle periferie italiane oggi. Le scelte fatte in questi anni hanno rispecchiato gli interessi delle élite economiche e finanziarie, italiane come europee e non certo dei ceti medi e dei ceti popolari che continuano a pagare la crisi. Così mentre noi diventavamo sempre più poveri, sono triplicati i “miliardari”: circa 112. A dimostrazione che i soldi ci sono e qualcuno ne ha fatti tanti, a spese di molti.

La crisi è un gigantesco meccanismo di ridistribuzione di danaro dal basso verso l’alto. A questo sono servite le politiche di austerità, l’azzeramento delle politiche sociali, i tagli alla sanità, le privatizzazioni, le modifiche in Costituzione sul pareggio di bilancio, le politiche di workfare, l’introduzione di leggi che hanno legittimato precarietà e sfruttamento lavorativo, le politiche fiscali regressive, l’assenza di investimenti per la cura del territorio e del bene comune. Il presunto governo del cambiamento, si caratterizza per la continuità con quanto fatto in precedenza.

Queste sono le politiche messe in campo in questi anni da chi grida prima gli italiani mentre fa leggi che li impoveriscono da venti anni insieme a evasori fiscali, collusi e mafiosi, o da chi inneggia a un vuoto concetto di onestà calpestando giustizia sociale e umanità ma in realtà obbedisce solo alla lingua dei più forti, o da chi sta mangiando popcorn dopo averci spiegato che l’unico futuro possibile sta nell’accettazione del modello che ha prodotto la crisi e per questo ha tentato di manomettere la Costituzione per “costituzionalizzarlo”.

È questa cultura politica, priva di qualsiasi volontà e capacità di rispondere alla crisi per cambiare le cose, che guida l’amministrazione comunale romana. Questo spiega la vergognosa assenza delle istituzioni nelle periferie delle capitale d’Italia. Sanno bene che al di la della rappresentazione teatrale da fornire ai media e alle solite battute sui social, nella realtà i ceti popolari di questo paese sono stati abbandonati e consegnati alla rabbia e alla disperazione. Questo spiega il disinteresse della giunta Raggi per l’aumento senza precedenti delle disuguaglianze in città. Altrimenti come potremmo giustificare l’ulteriore tagli nel bilancio di 52 milioni di fondi alle politiche sociali? Come potremmo spiegare l’assenza di politiche abitative capaci di garantire il diritto all’abitare in una città in cui quasi ventimila famiglie aspettano casa da quasi vent’anni? Come potremmo spiegare l’incapacità dell’amministrazione di restituire alla comunità i centinaia di beni confiscati alle mafie, nonostante il regolamento sui beni confiscati che per la prima volta è stato approvato grazie soprattutto all’impegno e alla determinazione delle realtà sociali impegnate nella rete dei Numeri Pari? Sono i numeri, i bilanci e le scelte politiche fatte che ci dimostrano da che parte stanno l’amministrazione comunale romane e il governo, e non le dichiarazioni sui giornali. Sono i principali responsabili di quanto sta avvenendo in questi ultimi mesi nelle periferie, della guerra tra poveri e del clima d’odio che si respira nel paese. E l’assenza di una vera opposizione rende il quadro ancor più complicato, perché lascia privi di rappresentanza milioni di cittadini che vorrebbero invece lottare per costruire una speranza e un futuro diverso da quello che ci viene proposto.

Chiaro è quindi che il problema ci riguarda tutti, da chi abita le periferie a chi ne è lontano. Bisogna unire tutti i soggetti e le realtà del sociale convinte che i diritti sociali, la dignità di ogni essere umano e l’impegno contro ogni forma di ingiustizia e razzismo siano le fondamenta sulle quali ricostruire democrazia, partecipazione e illuminare i territori abbandonati.

Rete dei Numeri Pari

9 Maggio 2019 / by / in ARTICOLI, I nostri approfondimenti, PER APPROFONDIRE, Rubrica Ad Alta Voce!
Emergenza Elianto: la cooperativa Iskra chiede incontro urgentissimo al Comitato Istituzionale del Distretto RM 5.1 per scongiurare chiusura servizio

la cooperativa Iskra ha richiesto un incontro urgentissimo al Comitato Istituzionale del Distretto RM 5.1., per cercare comunicazioni ufficiali che diano risposte certe sul futuro di questo servizio. Di seguito riportiamo la lettera che i familiari degli ospiti di Elianto hanno voluto inviare al su citato Comitato e, per conoscenza, ai referenti politici e tecnici della Regione Lazio.

Monterotondo 02.05.2019

Siamo i figli, i nipoti i familiari delle persone che frequentano il Centro Diurno Anziani Fragili Elianto. Vogliamo presentare con forza le nostre perplessità sul possibile taglio dei fondi destinati a tale servizio.

Il servizio agli anziani del territorio è, secondo noi, una fondamentale risorsa non solo alle famiglie degli anziani, ma alle persone stesse che si trovano ad usufruirne. Un servizio che nel corso degli anni ha dimostrato di avere un valore particolare. Viviamo in una società, dove a volte la dinamicità della vita familiare, con l’ovvia necessità del lavoro di tutti i membri della famiglia porta ad avere scarsa possibilità di dare la giusta attenzione e cura alle persone anziane che non riescono a tenere il ritmo della vita stessa.

Il servizio Elianto ha posto al centro la fragilità di queste persone valorizzando le loro risorse e permettendo loro di avere una vita relazionale ricca di scambi e di conoscenze.

Queste attività servono soprattutto a “risvegliare” gli animi di quanti e quante magari hanno pensato di non avere più opportunità e si sono lasciati un po’ morire dentro. Entrare a far parte del gruppo, della comunità Elianto ha fatto rifiorire in loro la voglia di fare e vivere appieno le opportunità offerte. Tutti gli eventi organizzati sono sempre molto partecipati con entusiasmo da tutti gli ospiti, che sono talmente fieri del loro “luogo speciale” da sentire la necessità di coinvolgere le famiglie, in modo da rendere questo momento aggregante anche a livelli diversi del gruppo tra pari.

Elianto non è un centro anziani, non è una casa di riposo… È il luogo dove molte persone hanno ritrovato la voglia di vivere, uscendo da situazioni personali che gli esperti potrebbero definire “Depressione Senile”, cioè quella situazione in cui la persona che si rende conto di non avere più le energie di un tempo, inizia a pensare di essere un peso per chi li circonda e comincia a chiudersi in se stesso riducendo sempre di più lo spazio vitale fino a limitarlo a se stessi.

In questo luogo le persone trovano degli amici che li “costringono” ad uscire di casa, a parlare con gli altri, a confrontarsi tra loro, a conoscere l’evoluzione della società che li circonda, a trasmettere le proprie conoscenze a persone più giovani, a fare esperienze esterne di scoperta di luoghi nuovi. E talmente tante altre cose che risulta difficile elencarle tutte. Alla fine quello che conta è che nello stare con gli altri le persone ritrovano la voglia di vivere e godere di quanto ancora la vita offre.

Negare questa possibilità, oltre a spezzare un percorso già intrapreso, ritenuto positivo sia dagli ospiti del centro che dalle famiglie, ha delle ripercussioni molto significative. La mancanza degli stimoli opportuni offerti in maniera professionale dagli operatori del centro lascia lo spazio al progressivo decadimento cognitivo che è la naturale evoluzione sia dell’età che della solitudine. Il percorso naturale è quello che poi porta al deperimento, aumentando quindi le necessita di cure sanitarie, fino ad arrivare all’ospedalizzazione che, oltre a peggiorare ulteriormente lo stato dell’anziano, comporta un aumento della spesa sanitaria ed il possibile aumento della mortalità.

Tale opportunità è garantita anche dalla Legge regionale n. 41 Del 2003 e ribadita dal DGR 1305 del 2004. In questi documenti si legge:

LR 41 Del 2003: Articolo 1 punto 2 “I servizi socio-assistenziali di cui al comma 1, lettera a), sono rivolti a… c) anziani, per interventi socio-assistenziali finalizzati al mantenimento ed al recupero delle residue capacità di autonomia della persona ed al sostegno della famiglia, sulla base di un piano personalizzato”;

DGR 1305 2004: “Le strutture a ciclo residenziale e semiresidenziale indicate dall’articolo 1, comma 1, Lettera a), della L.R. n. 41/2003, di seguito denominate anche strutture residenziali e semiresidenziali o strutture, prestano servizi socioassistenziali finalizzati al mantenimento ed al recupero dei livelli di autonomia delle persone anziane ed al sostegno della loro famiglia, sulla base di un piano personalizzato di intervento, come definito dall’articolo 1, comma 2, lettera c) della medesima legge.”… ” Le strutture a ciclo residenziale e semiresidenziale per anziani costituiscono uno dei servizi che offre una risposta socio-assistenziale al bisogno di tipo residenziale, tutelare, di autorealizzazione e di inclusione sociale dell’anziano, dando una risposta adeguata ad anziani autosufficienti e parzialmente non autosufficienti che richiedono garanzie di protezione nell’arco dell’intera giornata.”… “Il servizio … per anziani si ispira ai principi di partecipazione, sussidiarietà e si fonda sulla centralità del bisogno del cittadino utente, attraverso la partecipazione delle scelte tra servizi, operatori e destinatari, relativamente alla progettazione, all’organizzazione comune degli interventi ed all’attuazione dei progetti personalizzati di assistenza.”… ” l’attività della giornata è tale da soddisfare i bisogni assistenziali e di riabilitazione sociale degli ospiti, sopperendo alle difficoltà che la persona anziana incontrerebbe nel provvedervi con la sola propria iniziativa, promuovendo una sempre migliore qualità della vita e una sempre maggiore inclusione sociale. Tutte le attività e gli interventi hanno come finalità quella di aiutare l’ospite anziano a vivere la vita nel pieno delle proprie potenzialità, con un programma basato sul rafforzamento delle capacità, attraverso azioni di stimolo, sostegno e accompagnamento.”… ” L’attività … ha come finalità l’inclusione sociale dell’anziano, il sostegno alla famiglia e si propone come valida alternativa all’istituzionalizzazione.”

I nostri anziani sono, per noi, preziosi ed Elianto ci aiuta a fare si che la loro ricchezza interiore rimanga viva più a lungo.
Per questo motivo siamo fortemente contrari ai tagli dei fondi che potrebbero portare, in maniera naturale, alla definitiva perdita dell’opportunità offerta non solo agli ospiti anziani, non solo alle famiglie ma alla società civile tutta.
Chiediamo pertanto a questo Comitato Istituzionale di rivalutare la significatività di questo servizio garantendo il sovvenzionamento costante nel tempo e su tutto il territorio del Distretto.

Chiediamo a questo Comitato Istituzionale di essere incontrati con urgenza per valutare le nostre istanze, e per conoscere le Vostre scelte.

I Famigliari del Centro Diurno Elianto

3 Maggio 2019 / by / in ARTICOLI, Servizi sociali
Primo maggio: la festa del lavoro che non c’è – Il lavoro deve tornare a essere un diritto umano

1 maggio 2019

“Senza il diritto al lavoro la persona perde la sua dignità”, affermava Stefano Rodotà. A rileggerle oggi queste parole suonano come schiaffi. In Italia, il 5% più ricco degli italiani è titolare da solo della stessa quota di patrimonio posseduta dal 90% più povero e  il 20% più ricco possiede il 72% del patrimonio totale, mentre il 60% più povero ha appena il 12,4% della ricchezza nazionale. L’aumento della povertà, dopo il 2008, ha contribuito ad accrescere la disparità tra il 20% più ricco e il 20% disagiato, in termini di ricchezza, redditi e consumo. L’Italia è uno dei Paesi dove il rapporto tra ricchezza aggregata totale e il totale dei redditi prodotti ogni anno è tra i più elevati al mondo, una delle nazioni a più elevata intensità capitalistica, dove la ricchezza vale molto più del reddito. E il grande assente nel dibattito politico attuale, alle porte delle elezioni europee, è proprio il tema del lavoro. L’Italia si trova in basso alla classifica dei paesi europei per tassi di occupazione. Un giovane su tre non ha un posto. In 10 anni raddoppiati i sottoccupati. Il 25% ha un impiego inferiore al titolo di studio.

Viene da pensare alla Convenzione Internazionale sui diritti economici, sociali e culturali delle Nazioni Unite che  fa equivalere il lavoro a un diritto umano. Se si considerasse il lavoro come diritto alla dignità, così come sancito dalla nostra Carta costituzionale (articolo 1) che fonda l’ordinamento democratico sul principio-valore del lavoro, si eliminerebbe di conseguenza il lavoro precario, mal pagato, non sicuro, usurante e che provoca problemi di salute.

Un primo maggio nostalgico, che rinvia alla necessita di una produzione legislativa che non abbia più riguardo ai sussidi alla povertà, così come il Reddito di Cittadinanza, ma che capisca la necessità di incentivare la libertà della scelta lavorativa come misura di contrasto dell’esclusione sociale e della ricattabilità dei soggetti in difficoltà, così da garantire la “congruità dell’offerta di lavoro” e non “l’obbligatorietà del lavoro purché sia.

Le misure messe in campo fino ad oggi hanno allargato la distanza tra ricchi e poveri, hanno reso più precario il lavoro, più forte lo sfruttamento e la ricattabilità, intensificando la guerra tra poveri scatenata scientificamente dalla violenza del linguaggio. A tutto questo abbiamo il dovere, il diritto e la responsabilità di ribellarci, continuando a organizzarci, rafforzando le nostre alleanze su proposte concrete in grado di sconfiggere disuguaglianze ed esclusione sociale, raccontando la verità anche quando è scomoda.

Come cittadini abbiamo un obbligo, sancito dall’articolo 2 della Costituzione: la solidarietà. Il Governo ne ha un altro: lavorare per rimuovere gli ostacoli che limitano libertà e uguaglianza impedendo lo sviluppo e la partecipazione di tutti alla vita del paese (articolo 3).

In gioco non c’è solo il diritto a un lavoro dignitoso, ma il diritto all’esistenza di tutti e di tutte.

Rete dei Numeri Pari 

1 Maggio 2019 / by / in ARTICOLI, I nostri approfondimenti, PER APPROFONDIRE, Rubrica Ad Alta Voce!
I figli salvino i padri dalle loro colpe

Il Paese Sera – Giuseppe De Marzo

Dal 1972 parliamo in maniera approfondita di questioni ambientali e delle conseguenze del modello produttivo ed estrattivo capitalista sulla popolazione e sugli ecosistemi.

Era stato appena dato alle stampe “The limit to growth”, I limiti della crescita. Commissionato dal Club di Roma ad alcuni scienziati dell’MIT di Boston, denunciava già 47 anni fa i rischi per la sopravvivenza umana prodotti da un modello di sviluppo fondato sull’idea della crescita economica infinita, a fronte di un pianeta con risorse finite. Dal 1986 parliamo di sviluppo sostenibile e dal 1995 abbiamo fatto 24 conferenze mondiali sul clima, due incontri mondiali per la Terra.

Quasi tutte le grandi multinazionali parlano di green economy e si autocelebrano per la loro preoccupazione nei confronti dell’ambiente. Eppure siamo dinanzi alla più grave crisi ecologica della storia dell’umanità. È evidente che quanto ci viene proposto dalla governance liberista non funziona e che le promesse e gli impegni sono stati traditi. Questo sistema è per sua stessa ammissione insostenibile socialmente ed ecologicamente. Per la prima volta è la nostra sopravvivenza ad essere messa in discussione.

Non è la Terra che deve salvarsi, ma i suoi figli. La Terra sta già trovando nuovi equilibri per garantire il continuum della vita e se non ci adeguiamo e adattiamo alle mutate condizioni, la nostra presenza come specie umana è a rischio. Già oggi i cambiamenti climatici, che sono solo una parte della crisi ecologica, causano milioni di morti, danni per centinaia di miliardi di euro. Per questo sono ritenuti la più grave minaccia alla specie umana.

Distruggere le condizioni di vita del pianeta si traduce per noi, natura umana, in disastri sociali, economici, alimentari, energetici, migratori, finanziari, politici. Basterebbe pensare al dato dei migranti ambientali: sono 157 milioni gli esseri umani che dal 2008 al 2014 sono stati costretti a lasciare affetti, case e paesi. Ogni anno perdiamo 7 milioni di ettari di foreste, ed abbiamo perso già il 65 per cento delle zone umide del pianeta, che da sole sono capaci di assorbire 50 volte in più CO2 rispetto alle foreste. Ogni anno il giorno in cui consumiamo le risorse del pianeta prima che possano essere rigenerate arriva sempre prima. Nel 2018 è stato il primo agosto. La prima volta che è capitato era il 1970, ed era il 29 dicembre.

In meno di cinquanta anni il sistema di sviluppo capitalista ha contratto un debito gigantesco con la Terra: uno spread ecologico che si traduce in aumento di disuguaglianze e povertà ed in perdita di ricchezza netta. Significa che se vogliamo raggiungere la giustizia sociale, la precondizione è quella di garantire la giustizia ambientale. I ragazzi che manifestano per mettere al centro delle priorità politiche la lotta ai cambiamenti climatici hanno perfettamente compreso questa relazione. Per questo si sentono giustamente traditi da una classe dirigente ormai incapace persino di capire quanto sia in gioco.

Se vogliamo evitare che la temperatura del pianeta cresca tra i 2 ed i 4°C, dopo aver indicato in un massimo di 1,5° l’innalzamento consentito, bisogna ridurre le emissioni di CO2 del 40 per cento entro il 2020 e dell’80 per cento entro il 2040. In concreto significa: moratoria sulle estrazioni petrolifere e riduzione dei prelievi ancora operativi; investire nella riconversione ecologica delle attività produttive e della filiera energetica; stop agli investimenti in impianti fossili; sostegno finanziario a fonti rinnovabili e comunità energetiche; riorganizzare la mobilità attraverso interventi pubblici ed un lavoro culturale e di sensibilizzazione che agisca nel medio lungo periodo; contrasto all’agrobusiness, tra i principali inquinatori e avvelenatori del pianeta, per un’agricoltura biologica, multicolturale e multifunzionale; la fine delle politiche di austerità per promuovere investimenti diretti nel lavoro; nessun finanziamento a megaprogetti inefficaci socialmente ed ecologicamente come la TAV o la TAP.

È questa l’unica agenda del cambiamento possibile e desiderabile, capace di garantire giustizia sociale, ambientale ed ecologica, il diritto al lavoro, il diritto alla salute ed i diritti di Madre Terra.

26 Aprile 2019 / by / in ARTICOLI, I nostri approfondimenti, PER APPROFONDIRE
L’Italia e il traino delle cooperative

Le cooperative sono quasi 60mila in Italia, da sole danno lavoro al 7% dei dipendenti privati. Il Rapporto Istat-Euricse: sono le uniche realtà a crescere negli anni della crisi. Stefano Granata (Federsolidarietà): «Ma adesso serve un passo avanti»

di Paolo Riva

Non una nicchia, ma una parte importante della nostra economia. Che ha retto bene la crisi e fa sempre più parte di una strategia di sviluppo del Paese. È l’immagine delle cooperative italiane che emerge dal primo rapporto Istat- Euricse dedicato a struttura e performance del settore nel 2015. In Italia le cooperative sono 59.027, occupano poco meno di 1,2 milioni di addetti che rappresentano il 7,1 per cento dei lavoratori occupati complessivamente nelle imprese, e generano un valore aggiunto di 28,6 miliardi di euro (senza contare le cooperative del settore finanziario e assicurativo). Le cooperative più diffuse, quasi la metà del totale, sono quelle di lavoro. Sono seguite dalle cooperative sociali, d’utenza o consumo, e del settore primario. «Per la prima volta- commenta per Buone Notizie il presidente di Euricse, Carlo Borzaga – grazie a questo rapporto abbiamo un riferimento definitivo sulle dimensioni del settore cooperativo, non solo per smettere di sottovalutarlo ma anche per smentire alcuni stereotipi negativi, come quello sulle condizioni di lavoro».

Per lo studio Istat-Euricse i lavoratori dipendenti delle cooperative sono soprattutto donne (52 per cento), fra i trenta e i 49 anni (58,5 per cento) e in più di otto casi su dieci hanno un contratto a tempo indeterminato. Quello dei posti di lavoro è un tema centrale anche per capire come è stata affrontata la crisi. Secondo il presidente dell’Alleanza delle Cooperative Maurizio Gardini «le cooperative hanno rappresentato un argine alla perdita di occupazione». Nello specifico: «Sacrificando utili e patrimonializzazione nelle nostre imprese gli occupati sono cresciuti del 17 per cento mentre sono diminuiti di oltre il 6 per cento in tutte le altre società», ha dichiarato Gardini all’assemblea dell’organizzazione lo scorso febbraio, citando proprio il rapporto Istat-Euricse. E a crescere in maniera simile è stato anche il numero delle cooperative, che nel 2007 erano 50.691. «La cooperazione ha un sistema di crescita anticiclico.

Durante la crisi siamo stati resilienti e abbiamo tutelato innanzitutto i soci lavoratori», spiega a Buone Notizie Stefano Granata, presidente di Cgm e Federsolidarietà. È il tipico caso di ricadute indirette positive – interviene di nuovo Borzaga – che il settore garantisce alla collettività. «Aumentando gli occupati, le cooperative hanno generato un risparmio per lo Stato in termini di ammortizzatori sociali non erogati. Ma ci sono anche altri esempi. Le coop sociali di tipo B, che danno lavoro a persone fragili, producono in media quattromila euro di risparmi per addetto». Altro esempio: «In Trentino le cooperative agricole garantiscono una cura del territorio attenta e capillare». E così via. Ma non basta: per il presidente di Euricse la cooperazione sociale ha fatto moltissimo per cogliere i bisogni dei territori e trasformarli in servizi. Granata è d’accordo: è questa la strada su cui continuare ora che la crescita conosciuta tra il 2007 e il 2015 si è esaurita attestandosi su livelli decisamente inferiori. «Da un lato – argomenta – la crisi ha accelerato un processo già in atto: l’aumento delle dimensioni delle nostre imprese. Dall’altro le cooperative, soprattutto quelle sociali che rappresento con Federsolidarietà, sono andate maggiormente sul mercato, non lavorando più solamente in appalto con le pubbliche amministrazioni, ma cercando clienti tra i privati, aziende e cittadini. È un bene perché così si aprono opportunità enormi ».

Certo, esistono anche delle criticità. Le cooperative sono ormai presenti in tutto il Paese, ma la capacità di generare ricchezza non è uniforme e le differenze tra nord e sud sono ancora significative. C’è poi il tema delle false cooperative. Si stima che impieghino circa 100mila addetti, arrecando un grave danno di immagine a tutto il comparto che, infatti, sta chiedendo a gran voce l’approvazione di una legge di iniziativa popolare per contrastarle. «Ne abbiamo bisogno come il pane. Oggi quando parliamo di cooperative la gente si mette le mani nei capelli», ammette Granata. Una maggiore credibilità sarebbe invece fondamentale in questo frangente. Secondo il presidente di Cgm, consorzio che raggruppa oltre 700 realtà in tutta Italia, la sfida per il futuro è rispondere in maniera sostenibile ai bisogni emergenti, cui lo Stato non riesce più a far fronte da solo.

La cura degli anziani è un esempio e già oggi le cooperative che si occupano di sanità e assistenza sono quelle che impiegano più addetti e generano il maggior valore aggiunto. E i margini di crescita sono ancora ampi, per esempio, nell’ambito del welfare aziendale. «In questa fase dobbiamo investire e per farlo abbiamo bisogno di un sistema pubblico, ma anche privato, profit, in grado di immettere capitale nel nostro settore. Alle istituzioni non chiediamo tanto interventi specifici per la cooperazione, quanto piuttosto di essere coinvolti in quei processi che andranno a costruire nuove risposte per i nuovi bisogni della società». Anche il professor Borzaga, che studia il fenomeno da tempo, è ottimista riguardo al futuro. «Dopo una fase di involuzione negli anni del fordismo, la cooperazione sta tornando ad assumere un’importanza crescente come modello dell’attività economica. E questo perché mette al centro il fattore umano e l’interesse generale».

https://www.corriere.it/buone-notizie/19_aprile_25/quanto-siamo-cooperattivi-11f214d4-6699-11e9-b785-26fa269d7173.shtml?fbclid=IwAR3orNprHYw_8f2oLMwqYDcqtOWuQVy5xvEVeOYLnvL4AZVMA3eV3RBRD34

26 Aprile 2019 / by / in ARTICOLI, Servizi sociali
Il mio 25 aprile e la grande utopia della Resistenza

Nel mio vissuto la fine della guerra e la consacrazione della vittoria non coincidono esattamente con il 25 aprile. Quel giorno del 1945 io ero, con la divisione Cremona, in Veneto, dove stavamo liberando paesi e villaggi, con i tedeschi in fuga. In uno di quei giorni, nel corso di una battaglia fu ucciso il capitano più amato da tutto il nostro plotone. I tedeschi, ritirandosi, cercavano di distruggere il più possibile e noi cercavamo di salvare le infrastrutture (ponti, ferrovie, strade) e i beni (scuole, chiese, opere architettoniche, opere d’arte). Fu prezioso l’aiuto dei partigiani che, dov’erano attivi, svolsero, oltre alla guerriglia anche la funzione di limitazione dei danni cercando di incalzare i tedeschi per non dar loro il tempo di distruggere tutto o di fare delle stragi. Se non erro, a Venezia siamo arrivati il 28-29 aprile.

La fine del mese di aprile del 1945 fu per me un insieme di giorni meravigliosi in cui entravamo nei paesi e nelle città, e la gente ci applaudiva e ci riconosceva come liberatori; ogni volta era una festa incredibile. Ricordo quei giorni tra i più belli che abbia vissuto perché c’era un grande entusiasmo. La gente considerava il nostro arrivo come la fine dell’incubo della guerra, dell’occupazione dei tedeschi, dell’arroganza dei fascisti della Repubblica sociale. Ovviamente, in questi paesi c’erano anche i fascisti, ma non in piazza. La maggior parte della popolazione ci gettava fiori, le donne ci abbracciavano e cercavano di aiutarci in tutti i modi. Ricordo un villaggio in cui, convinti che nell’esercito americano si mangiasse tutto in scatola, ci portarono farina per fare la pasta e i ravioli. Erano felici e, se potevano, ci fermavano per dividere quel poco che avevano. Noi ricambiavamo con sigarette americane o inglesi che erano ancora una merce molto rara.

Quando la Festa della Liberazione venne istituzionalizzata fu per me un momento di grande entusiasmo, di grande felicità. Mi pare di ricordare che il riconoscimento sia avvenuto in due momenti: dapprima, quasi subito, con un decreto luogotenenziale e poi, un paio di anni dopo, con una legge, emanata su proposta del Presidente del Consiglio De Gasperi, che proclamò a pieno titolo la “Festa nazionale ufficiale”, come giorno di riposo retribuito. Poi, negli anni successivi, sono stati tanti i 25 aprile finalmente celebrati, con feste popolari, in cui ancora era ancora vivo l’entusiasmo della liberazione e spirava il cosiddetto “vento del nord”.

Presto, com’è naturale, non ci saranno più i partigiani e, in genere, i combattenti per la libertà. Ma la cosa è irrilevante per il carattere della festa. Per molti anni l’Italia è stata soprattutto una Repubblica del dolore e del ricordo dei caduti, mentre sempre più la Repubblica deve fondarsi sulla memoria storica. Memoria intesa non solo come ricordo doloroso ma come conoscenza, di cui sono testimonianza i monumenti, le lapidi, le feste nazionali. Ecco, io immagino che, partigiani o non partigiani, il 25 aprile deve mantenere questa fisionomia. Noi dobbiamo la nostra vita democratica alla Resistenza. La nostra Costituzione è nata dalla Resistenza. Il 25 aprile, Festa della Liberazione, ha tutti questi significati dentro di sé e deve rimanere tale.

Non sarebbe esatto dire che chi ha combattuto per la libertà combatteva solo per questo: nei partigiani era chiaro che l’obiettivo era duplice e riguardava, insieme, libertà e democrazia. Ben pochi giovani sarebbero stati disposti a prendere le armi e cacciare i fascisti solo per tornare allo Statuto Albertino (quello in cui il sovrano concedeva, di sua iniziativa, i diritti al popolo). Ogni tanto, nelle scuole, mi chiedono cosa facessimo noi partigiani quando non si combatteva. È una domanda ingenua che presuppone un’immagine della Resistenza come di una guerra, mentre essa fu, più esattamente, una guerriglia. C’erano giorni in cui i territori erano pieni di tedeschi o di fascisti e non era il caso di uscire allo scoperto, altri in cui si preparava o si effettuava un agguato o un’azione particolare. Nei lunghi periodi di inattività eravamo impegnati anche in grandi discussioni, in cui si parlava del futuro, di come lo si immaginava.

L’idea del futuro, anche per istinto, non era certo il ritorno a prima del fascismo ma l’avvento di qualche cosa di completamente diverso che chiamavamo genericamente democrazia, cioè un Paese senza dittatura, senza imposizioni, senza violenza. Era inevitabile fondare uno Stato basato sulla democrazia con, al centro, il popolo sovrano. Si può dire che questa è stata la grande “utopia” della Resistenza, una bellissima utopia. Senza utopia non si costruisce quasi niente. I fatti ci hanno poi, in parte, deluso: la democratizzazione del Paese non è stata lineare, la defascistizzazione delle istituzioni è rimasta incompleta e l’applicazione concreta dei princìpi di libertà e uguaglianza in gran parte non c’è stata. È vero, però, che quell’utopia, quei sogni, quelle speranze e la volontà di princìpi e valori nuovi sono entrati stabilmente (e definitivamente) nella Costituzione repubblicana.

La storia, se è vera storia, è una sola anche quando, inizialmente, non è condivisa. In ogni Paese ci sono avvenimenti fondamentali che nel tempo, per riconoscimento legislativo o per altre ragioni, diventano patrimonio e memoria comuni. Il 25 aprile, la liberazione dal fascismo, è per noi uno di questi avvenimenti.

Allora non ha nessun senso dire che da un certo momento in là deve esserci una pacificazione. Ma quale pacificazione? C’è stato chi ha combattuto per mantenere una feroce dittatura e chi, invece, ha combattuto per la libertà e la democrazia. Una differenza fondamentale che non si può colmare con una presunta “pacificazione”, dal momento che quella lotta si è conclusa con la vittoria di una parte, quella che amava la libertà. Non conserviamo rancori, ma non siamo disposti a violentare la realtà storica e a restituire spazio alle idee che abbiamo combattuto. È un’assurdità pensare che sia venuta meno la differenza tra partigiani e fascisti della Repubblica di Salò. La storia ci dice che c’è stata la Resistenza e che essa, alla fine, come ho detto, ha vinto. Questo riconosce la legge, dichiarando il 25 aprile Festa nazionale, Festa della Liberazione. Punto e basta. Ciò non significa, in alcun modo, coltivare odio verso i nemici di ieri. Io non ho mai nutrito, neppure durante la guerra, sentimenti di odio nel senso letterale del termine. A maggior ragione non credo che possa esserci odio oggi. Accade che ci sia chi rifiuta valutazioni che appartengono ormai alla storia comune del nostro Paese. Secondo me sbaglia. Tutto qui.

I rigurgiti di fascismo ci sono da tempo. E del resto abbiamo avuto – anche nel passato – fascisti al governo e partiti che al fascismo si richiamavano. Adesso, però, si stanno acuendo, in una sorta di escalation, nelle manifestazioni pubbliche e sulla rete. Per capire il fenomeno, bisogna partire da un presupposto fondamentale: quello secondo cui l’Italia, i conti col fascismo non li ha mai fatti sul serio. C’è stata – è vero – l’Assemblea Costituente improntata a una evidente polemica con il passato, ma l’approfondimento non c’è stato e addirittura abbiamo lasciato o rimesso al loro posto molti protagonisti della stagione fascista. A mancare non è stata solo una necessaria epurazione; è mancato anche un ragionamento rigoroso su cosa è stato il fascismo, cosa ha rappresentato e come è stato recepito dal popolo durante il ventennio. Su quest’ultimo punto, c’è stato almeno uno sforzo di chiarezza, per mettere ordine tra le due correnti di chi sosteneva che tutti erano stati fascisti e chi diceva che ben pochi lo erano stati veramente, ma sul fascismo come tale, nulla di serio. In realtà il fascismo è stato una dittatura, con tutte le caratteristiche di una vera e dura dittatura, anche se con aspetti, talora, grotteschi. È stata una dittatura durante la quale molta gente è andata in carcere o al confino, e molta gente ha perso la vita, soldati mandati a morire. Ebbene, un ragionamento complessivo, dopo la fine del fascismo, non l’hanno fatto – prima di tutto – le istituzioni, che non sono state democratizzate e de-fascistizzate come avrebbero dovuto essere. Soprattutto non è riuscita, a tutt’oggi, ad affermarsi, nel complesso delle istituzioni e nel loro “intimo”, l’idea che il nostro è un Paese non solo democratico ma anche antifascista.

I rigurgiti fascisti attuali sono favoriti, anche involontariamente, dall’affermazione piuttosto diffusa che il vecchio fascismo ormai è finito, che è un fenomeno concluso e superato, un semplice residuo del passato. Così non si coglie il fatto nuovo che dovrebbe allarmarci e preoccuparci. Il nostalgico del fascismo, alla fine, non è un grande pericolo, è minoritario, sogna un impossibile ritorno. Ad essere più pericoloso è il fascista del “terzo millennio”, quello che vorrebbe sostituire alla nostra democrazia in crisi un uomo solo al comando, invertendo il discorso di Pericle e degli ateniesi secondo cui la democrazia è il governo dei molti e non dei pochi. Ho visto recentemente un sondaggio da cui risulta che molti cittadini si dicono favorevoli a un uomo forte al comando. Questo vuol dire non solo non aver fatto i conti col passato, ma non aver capito nulla del presente e delle novità che in tutto il mondo si vanno presentando. Adesso si profilano forme di “fascismo” nuove, incoraggiate dal fatto che in Europa c’è una spinta complessiva a destra e non verso una destra liberale (cosa che sarebbe del tutto normale, nella competizione politica) ma verso una destra che tende a essere “nera” o a basarsi su gretti nazionalismi, egoismi, razzismi. Sta qui l’aspetto più pericoloso. Se guardiamo all’Europa troviamo troppi Paesi, soprattutto nell’Est, nei quali vi sono regimi autoritari che non si definiscono fascisti ma che in qualche modo tendono a esserlo, dal momento che escludono la libertà di stampa, i diritti dell’opposizione e mirano, alle fondamenta, l’autonomia della magistratura. In molti Paesi d’Europa la crescita delle migrazioni ha prodotto l’effetto, involontario ovviamente, dell’insorgere di egoismi nazionalistici, degli egoismi individuali e delle varie forme di razzismo con l’idea che il fenomeno vada combattuto con i muri, con i fili spinati o, peggio ancora, respingendo i migranti anche con le armi. Questo, in una situazione di malfunzionamento delle istituzioni e di cattiva politica, crea un clima, un humus favorevole allo sviluppo di idee alternative alla democrazia. Le idee di chi rifiuta i migranti e sostiene che vanno privilegiati i cittadini, che il lavoro va dato prima ai nostri, che la casa va data per primi a quelli che abitano in Italia da tempo. Da qui la prospettata esigenza di governi stabili, destinati a sfociare in governi autoritari. Ciò ha dato spazio a movimenti neofascisti nuovi, anche diversi dal fascismo “tradizionale” e ha reso più arditi quelli che venivano considerati solo come “nostalgici”.

L’articolo è uno stralcio del libro di Carlo Smuraglia e Francesco Campobello
Con la Costituzione nel cuore (Edizioni Gruppo Abele, 2018)

Il mio 25 aprile e la grande utopia della Resistenza

26 Aprile 2019 / by / in ARTICOLI, PER APPROFONDIRE
Quando per affermare un diritto (la sicurezza) se ne perde un altro (la libertà) | La direttiva “anti-balordi”: una limitazione di libertà 

24 aprile 2019

I prefetti potranno intervenire «per supplire» alle carenze dei «sindaci distratti». Un provvedimento che è stato inviato dal ministro dell’Interno a tutti i sindaci italiani, con la delimitazione di alcune zone rosse all’interno delle città. «Il Viminale e il decreto sicurezza offrono armi in più per combattere» occupazioni, degrado, abusivismo e illegalità, ha affermato Salvini. In parole povere, una direttiva che si traduce in una “punizione” qualora i sindaci non riescano a far rispettare la tanto discussa sicurezza urbana con misure adeguate, se così si può dire.

Appena un anno fa, Salvini prometteva l’eliminazione dei prefetti per dare più potere ai sindaci. Oggi, consente ai prefetti di scavalcare i sindaci per garantire l’ordine e il decoro urbano. Ancora una volta, però, si perde il punto centrale, il tema reale che sta dietro a tutti questi sistemi di criminalizzazione del povero, dell’emarginato, già iniziati sotto Minniti. Confini di segregazione, zone ghetto in cui confinare chi non si vuole vedere, una deriva securitaria che individua come indesiderate le vittime invece dei carnefici. Depotenziare i sindaci, spesso soggetti a scarse risorse economiche, dati gli ingenti tagli al sociale adoperati dal governo nazionale, è un altro passo verso la distruzione dello stato di diritto. Per salvare la democrazia, diceva Stefano Rodotà, non si può perdere la democrazia. E così ritorna l’eterna questione: quando per affermare un diritto (la sicurezza) se ne perde un altro (la libertà), qualcosa non funziona.

In questo caso, si tratta di restrizioni e limitazioni della libertà, di colpevolizzazione del povero e operazioni di propaganda politica sulla pelle dei più deboli.  La riduzione dei diritti è una risposta facile, che apparentemente rassicura, ma indebolisce la democrazia e non dà strumenti di lotta o di alternativa. La direttiva “anti-balordi” ne è una dimostrazione: contraria alla riserva di giurisdizione e libertà di movimento prevista dalla Costituzione, crea ancora più insicurezza e favorisce l’emarginazione.

La crisi economica, la povertà, il tanto conclamato degrado hanno radici e cause ben più profonde e strutturali di quanto viene solitamente affermato e non sono risolvibili a colpi di direttive. Innanzi tutto, provengono da una visione delle politiche sociali come un costo e non come un investimento e un obbligo, dall’assenza di una misura di sostegno al reddito che non sia un sussidio come il Reddito di cittadinanza, da politiche fiscali regressive e la mancanza di vere misure di contrasto all’evasione fiscale, da politiche di austerità che solo il nostro Paese ha voluto introdurre addirittura in Costituzione con la modifica dell’articolo 81 che impone il pareggio di bilancio e da politiche sul lavoro sbagliate che hanno favorito l’insicurezza sociale, la precarizzazione e abbassato i salari, per citarne alcune.

Non sarà creando delle zone di confine e di segregazione, non sarà sopprimendo il potere democratico, che si arriverà all’eliminazione della povertà e dell’emarginazione.

Martina Di Pirro
24 Aprile 2019 / by / in ARTICOLI, I nostri approfondimenti, PER APPROFONDIRE, Rubrica Ad Alta Voce!
L’emergenza politica che avvelena la terra
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Sebbene l’indignazione sia massima e le ragioni che spingono all’aggiramento della Valutazione Ambientale Strategica inconfessabili quanto chiare, l’appello di Patrizia Gentilini, oncologa dell’Associazione Medici per l’ambiente, è davvero accorato: “Mi rivolgo a coloro che saranno chiamati a votare con il cuore in mano. Con che coraggio andate a manifestare insieme a Greta e poi firmate questi atti? Promuovere un’agricoltura basata sui pesticidi e le monoculture è sbagliato. Abbiamo già oltre 130 mila tonnellate di pesticidi sui suoli agricoli ed è ampiamente dimostrato che si tratta di sostanze persistenti che ritroviamo ormai ovunque. Sostanze che creano alterazioni del genoma e sono correlate a diverse patologie, autismo e danni cognitivi”. L’appello è rivolto ai deputati che martedì decideranno se dare il via libera al Decreto emergenze che, con l’articolo 8, consentirà in caso di “emergenze” di prendere anche “misure fito-sanitarie in deroga a ogni disposizione vigente”. Il caso degli ulivi del Salento mostra chiaramente come poi l’emergenza diventi la norma, la routine di avvelenamento dei suoli e delle persone e l’apertura a un modello di colture intensive e di bassa qualità. Il solito enorme business per qualcuno. “Ma lo sapete cosa state facendo?”, domanda disperata l’oncologa a chi si appresta a favorire la rovina dell’olivocoltura pugliese in barba alla salute dei cittadini, alla Costituzione e alle altre leggi esistenti. Pensavamo di aver toccato il fondo con il decreto Martina e invece no

 “Esprimo la più profonda preoccupazione e indignazione per quello che sta capitando. L’articolo 8 di questo decreto inficia le basi stesse del nostro diritto alla salute, all’informazione e le fondamenta della nostra Costituzione” la denuncia arriva da Patrizia Gentilini, medico oncologo, dell’Associazione Medici per l’ambiente (Isde), intervenuta venerdì 12 aprile, a Montecitorio, alla conferenza “Art. 8 Decreto Emergenze: un’emergenza da fermare”.

Il riferimento è all’articolo che prevede che in caso di emergenza “le misure fitosanitarie siano attuate in deroga a ogni disposizione vigente”. Cosa significa questo? Che in caso di fitopatie, per esempio per contrastare la diffusione di organismi nocivi per le piante come, nel caso citato, Xylella fastidiosa, si possa agire in deroga alle leggi nazionali e regionali, ignorando le norme a tutela della salute, dell’ambiente e del paesaggio, della proprietà privata e delle libertà personali.

Deroga alla VAS

Con il decreto Emergenze si introduce anche una pericolosa modifica al Testo Unico Ambientale, il 152 del 2006, sulla disciplina della VAS, la Valutazione Ambientale Strategica, che è obbligatoria per tutti i piani e programmi al fine di prevedere l’esame dei loro effetti sull’ambiente e sulla salute, secondo principi Comunitari di sostenibilità.

“Inserire le misure fitosanitarie di emergenza tra i piani esenti da tale obbligo è gravissimo – afferma Massimo Blonda, biologo e ricercatore, ex Direttore Arpa Puglia – Si tratta infatti di una deroga che non viene ammessa per proteggere la sicurezza dei cittadini o la salute delle persone bensì per tutelare le piante o, per meglio dire, un comparto economico.Questo significa che con il pretesto di una fitopatia, si possa fare qualsiasi cosa, senza tener conto dell’impatto ambientale delle misure fitosanitarie adottate, impedendo di fatto alle varie competenze scientifiche di confrontarsi e ai cittadini di partecipare alle decisioni che riguardano il proprio territorio. Si crea quindi un vulnus – prosegue Blonda – un malessere sociale tra chi queste misure le promuove e le intima e chi le subisce senza poterle osservare nelle sedi di partecipazione preposte”. E soprattutto si impedisce un percorso di valutazione attenta delle possibili alternative, come per esempio nel caso della Puglia, dove si impongono misure anche molto drastiche e impattanti in assenza di certezze di efficacia delle stesse. Ma non solo. “In questo modo ci si priva di una valutazione oggettiva dei possibili scenari così detti “post Xylella” che consideri i cambiamenti climatici in atto e le risorse naturali disponibili, come l’acqua e la qualità del suolo. Ricondurre i piani fitosanitari, la gestione delle biomasse morte e le strategie di riconversione agronomica nel legittimo ambito VAS, eviterebbe molti possibili errori, conflitti e, alla fine, danni irreparabili”.

Il caso Xylella

Pensavamo di aver toccato il fondo con il decreto Martina che autorizzava neonicotinoidi e piretroidi senza alcuna motivazione scientifica, ma al peggio non c’è mai fine” continua Gentilini, riferendosi al piano di contenimento del batterio. “Io non sono pugliese ma questa vicenda mi tocca particolarmente – continua Gentilini –  Credo fermamente che davanti a questi alberi ci si dovrebbe inginocchiare. Se hanno resistito millenni e se adesso sono malati ci dovremmo fare qualche domanda. L’albero è malato quando tutto l’ambiente attorno a lui è malato”. E invece s’impone l’abbattimento. “Le criticità trasformate in emergenza permettono a derogare a tutto e portare avanti dei piani, per esempio in questo caso la monocultura, che sono contrari a qualsiasi logica e scientificità”.

Trasferimento di funzioni e responsabilità

La gestione della questione Xylella non ha nulla di scientifico. Il progetto di riconversione olivicola in Puglia è una decisione politica che non ha niente a che fare con la scienza – spiega Antonio Onorati, Via Campesina e Ari (Associazione Rurale Italiana) – Alcuni politici usano la scienza per giustificare atti politici e una parte degli scienziati si presta a questo, trasformandosi in decisori politici. Con una sorta di trasferimento delle funzioni e delle responsabilità”. E ancora: “Quello che si sta ingiungendo in Puglia con il pretesto dell’emergenza Xylella è un’olivicoltura intensiva, una produzione di bassa qualità che sul mercato vale la metà di quella attuale. Ma imponendo questo modello non si tiene conto delle peculiarità della nostra agricoltura e di quel territorio – continua Onorati – L’olivicoltura italiana è fatta di piccole e medie imprese, è un’olivicoltura di pendenza a bassa o nulla irrigazione. In Puglia non c’è acqua e non ci sono grandi distese pianeggianti. Come si può pensare di imporre lì il modello spagnolo?”.

Una domanda che, a quanto pare, nell’attuale dibattito politico cade nel vuoto. Del resto la prima volta che si è parlato di portare l’olivicoltura pugliese all’intensivo era il 1999. Un progetto che ha radici lontane: “Per fortuna gli olivicoltori pugliesi fino ad oggi sono stati intelligenti e si sono opposti a questo che è a tutti gli effetti un piano industriale e capitalistico. Capitalizzare o morire. O hai soldi o te ne vai. Meccanizzazione, irrigazione e input chimici costano. Quindi di fatto per i piccoli produttori e per quella terra è una condanna a morte”.

L’appello dei Medici per l’Ambiente

“Mi rivolgo a coloro che saranno chiamati a votare con il cuore in mano. Con che coraggio andate a manifestare insieme a Greta e poi firmate questi atti? – conclude Gentilini – Promuovere un’agricoltura basata sui pesticidi e sulle monoculture è quanto di più sbagliato si possa fare. Ci sono tantissimi studi scientifici a testimoniarlo, ci sono i dati della Fao, le soluzioni sono altre e sono documentate. Abbiamo già oltre 130 mila tonnellate di pesticidi sui suoli agricoli ed è già ampiamente dimostrato che si tratta di sostanze persistenti che ritroviamo ormai ovunque. Sostanze che creano alterazioni del genoma e che sono correlate a diverse patologie, autismo e danni cognitivi. Sapete cosa state facendo continuando a avvelenare la terra? Uccidendo la vita del suolo uccidiamo anche la nostra. Per favore pensateci un momento”.

L’emergenza politica che avvelena la terra

23 Aprile 2019 / by / in ARTICOLI, PER APPROFONDIRE
Il bianco e il grigio del Def 2019

16 Aprile 2019 

Il Def cerca di far crescere, tramite il reddito di cittadinanza, il PIL potenziale di almeno 11 miliardi. Ma si tratta di misure una tantum che non riducono il rapporto debito-Pil e quindi la possibilità di allagare le maglie del bilancio pubblico per nuovi investimenti. Un fallimento per il governo. 

Il Documento di Economia e Finanza 2019 (DEF) del governo Conte è sospeso tra prospetti tendenziali-programmatici dei conti pubblici, e prospettive di cambiamento delle politiche economiche europee. Una sospensione più che giustificata. Le prossime elezioni europee non sono un appuntamento più o meno ricorrente, piuttosto un appuntamento con la Storia.

Da un lato abbiamo un Fiscal Compact scaduto e bocciato dal Parlamento europeo (27 novembre 2018), dall’altra ci sono i vincoli finanziari reclamati dalla Commissione senza una adeguata copertura giuridica. In altri termini, i vincoli del Fiscal Compact non sono diritto comunitario, ma continuano ad essere esercitati pur in assenza di una normativa europea coerente.

Utilizzando le categorie delle cosiddette istituzioni del capitale “informali e formali”, le consuetudini e il senso comune (istituzioni informali) hanno sopravanzato le regole sancite dalle istituzioni formali del capitale. Più precisamente: i vincoli di bilancio sono diventati senso (struttura) comune delle policy europee e degli Stati aderenti, indipendentemente dalla struttura giuridica dei trattati. 

Il DEF è lo specchio fedele di questa incertezza, a cui si aggiunge uno scenario economico incerto che interessa un po’ tutti gli Stati dell’area euro. La caduta del PIL non è un fenomeno imputabile alle politiche del governo in carica, piuttosto alla guerra valutaria e commerciale internazionale, alla incertezza relativa alla Brexit, con tutte le implicazioni dal lato del mercato finanziario, e alla contrazione della cosiddetta “domanda effettiva europea e internazionale”. Si potevano immaginare dei provvedimenti più coerenti e puntuali nella Legge di Bilancio, oppure delle policy adeguate per attutire l’impatto della crisi economica nel DEF, sacrificate sull’altare del Reddito di Cittadinanza e Quota cento, ma la minore crescita del PIL sarebbe comunque intervenuta.

Semmai sorprende la resistenza e/o aspettative del governo circa gli effetti economici relativi alla riduzione del prelievo fiscale e agli incentivi alle imprese. Sebbene tra precedente governo e quello attuale ci sia una differenza di stile importante, gli obbiettivi sono gli stessi e il risultato finale sarà più o meno identico, con l’aggravante di una finanza internazionale estremamente diffidente rispetto all’attuale compagine governativa.

Più che la crescita del PIL, ridotta allo 0,1% per il 2019 e allo 0,6%, sostanzialmente in linea con il quadro programmatico delineato dal governo (si veda la tabella 1), e il deficit nominale, che pasa del meno 2,4% del 2019 al meno 2,1% del 2020, è significativamente più grave l’invarianza del così detto deficit strutturale, cioè l’indicatore utilizzato dalla Commissione Europea per valutare l’efficacia delle politiche pubbliche degli Stati.

Questo rimane costante tra il meno 1,5% e il meno 1,4% del PIL. Sul punto occorre una seria e puntuale riflessione. Ricordando che il deficit strutturale è il rapporto tra il deficit nominale e il PIL potenziale, il fatto che questo rimanga sostanzialmente invariato contraddice una parte delle politiche del governo e, in particolare, quelle relative al Reddito di Cittadinanza.

Senza discutere sull’opportunità o meno del reddito di cittadinanza, la proposta governativa aveva un pregio: la disoccupazione italiana diventa più credibile perché sussume le persone che avevano rinunciato alla ricerca di un posto di lavoro e non rientravano più nella disoccupazione certificata dall’Istat. Si tratta, in fondo, di una operazione trasparenza con degli effetti economici sul Pil potenziale importante. Se i numeri delle domande relative al Reddito di Cittadinanza sono veri, almeno 470 mila persone rientrerebbero nel mercato del lavoro, con l’effetto di far crescere il PIL potenziale di almeno 11 miliardi di euro (stima Romano). Il così detto output gap, cioè la differenza tra PIL reale e potenziale rimane, purtroppo, molto simile. Si osserva una piccola crescita dello stesso nel 2019 pari a 0,2 punti di PIL, ma troppo poco per immaginare un spazio di finanza pubblica legato alla riduzione del deficit strutturale.

La sostanziale stabilità del deficit strutturale solleva, quindi, più di una perplessità, la quale aumenta se consideriamo l’invarianza (positiva) dell’avanzo primario (il saldo del bilancio pubblico al netto della spesa per interessi). Se aumenta il tasso di partecipazione al lavoro, in ragione della crescita dei potenziali occupati, il PIL potenziale deve necessariamente crescere, almeno per la quota parte relativa ai nuovi potenziali occupati. In altri termini, la crescita della disoccupazione e del tasso di partecipazione dovrebbero manifestare una potenziale crescita strutturale; certamente non utilizzata in ragione della specializzazione industriale nazionale, ma rimane pur sempre un PIL potenziale strutturale a cui far tendere l’intero sistema economico nazionale, e molto utile nei confronti con la Commissione per la validazione dei conti pubblici. Evidentemente questo PIL potenziale non è strutturale, piuttosto una crescita una tantum del PIL, come si può osservare nella tavola 2.

Evidentemente la misura si configura come uno strumento contro la povertà e non uno strumento strutturale per aumentare il tasso di partecipazione che rimane ancorato alle aspettative della domanda (crescita del PIL). Inoltre, l’aumento dei consumi sotteso al Reddito di Cittadinanza, la crescita del tasso di partecipazione e l’aumento degli investimenti, sono realmente una tantum, tanto è vero che le esportazioni non crescono, nel mentre aumentano le importazioni.

Anche Quota cento non ha nessun effetto sulla crescita e sul PIL potenziale (tavola 3); infatti, con quota cento il tasso di partecipazione si riduce di 0,1 punti nel 2019, per arrivare a meno 0,3 negli anni successivi. 

Il PIL potenziale poteva diventare un’arma per discutere con l’UE le politiche economiche europee, ma i provvedimenti adottati si configurano come parziali e non strutturali. Non imputo la minore crescita a questo provvedimento o alla Quota cento, ma l’invarianza del PIL potenziale pregiudica la riduzione (stabilizzazione) del rapporto debito-Pil e quindi la possibilità di allagare le maglie del bilancio pubblico per effettuare nuovi investimenti. Questo è il vero fallimento del governo Conte. 

Ovviamente le politiche europee cambieranno dopo le elezioni, e probabilmente ci saranno dei miglioramenti nella definizione del deficit pubblico, ma la crescita del PIL potenziale non è un esercizio a buon mercato conseguibile via riduzione del prelievo fiscale e via incentivi alle imprese. 

Era difficile prefigurare un DEF diverso da quello uscito dal Governo in termini di saldi nominali, la crisi vale per tutti, ma il fallimento nella crescita del PIL potenziale rende le clausole di salvaguardia (quasi 50 miliardi nel biennio) e le spese improrogabili una muraglia insormontabile a cui la spending review (8 miliardi) e la ridefinizione delle tax expanditure potranno ben poco contribuire. 

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23 Aprile 2019 / by / in ARTICOLI, PER APPROFONDIRE
Don Ciotti: “Usiamo la Costituzione contro l’uomo forte”

Intervista Huffpost: la propaganda razzista punta sui deboli. Non da oggi la paura serve per fare bottini elettorali, torniamo tutti al bene comune

La manomissione comincia dalla lingua: “Sono stanco di sentir parlare di popolo. È una parola importante, che bisogna pronunciare con rispetto e, arrivo a dire, un po’ di reverenza. Invece, è tra le più abusate e manipolate di questo tempo. I populisti, lungi dall’amare il popolo, di puntare al suo progresso sociale, civile, culturale, economico, l’hanno strumentalizzato per biechi fini di potere, spacciando illusioni, menzogne e creando, se necessario, nemici immaginari, come faceva la dittatura fascista con l’Inghilterra, e come si sta facendo oggi con i migranti”. Secondo Don Luigi Ciotti – prete, fondatore del gruppo Abele e presidente dell’associazione antimafia, Libera –, la cosa più urgente da fare oggi non è lanciare allarmi, salire sulle barricate insieme alla propria tribù, non è nemmeno attaccare Luigi Di Maio e Matteo Salvini: “Non mi interessano le polemiche personali”. La cosa più importante da fare per Don Ciotti è parlare con i razzisti: “Non solo si può parlare loro: si deve. La parola, quando scaturisce dalla conoscenza ed è animata da passione e onestà, può aprire spiragli in menti che ignorano la realtà o la tengono a distanza con le barriere dei giudizi e dei pregiudizi”.

Per farlo, ha scritto “Lettera a un razzista del terzo millennio” (Edizioni Gruppo Abele), un breve libro nel quale si rivolge al suo interlocutore immaginario senza condannarlo moralisticamente, né liquidandolo con la scomunica di un’etichetta – “fascista” – che interrompe qualsiasi discorso, tracciando una divisione irremovibile tra chi sta da una parte e chi sta dall’altra. Al contrario, riconosce l’ingiustizia, l’impoverimento economico, l’esclusione sociale che al falò del razzismo forniscono legna da bruciare in quantità: “Bisogna sempre cercare di capire, tanto più se si tratta di questioni così delicate. Non per indulgenza, ma perché per dare a un problema grave risposte efficaci bisogna comprenderlo in tutte le sue sfaccettature, nei suoi risvolti politici, etici, esistenziali. Altrimenti, da una parte e dall’altra, ci si limita agli slogan e alla propaganda”.

Qual è la differenza tra un razzista del terzo millennio e gli altri razzisti?

Credo che a fare la differenza siano soprattutto i mezzi d’informazione e di comunicazione, che negli ultimi decenni, grazie a Internet, hanno conosciuto un potenziamento mai visto prima. Oggi i giudizi sommari e i pregiudizi del razzismo viaggiano a velocità impressionante e possono diffondersi in modo capillare, cosa che è stata sfruttata dai demagoghi e impresari della paura per alimentare l’ostilità contro il “diverso” e lo straniero, additati come i colpevoli dei nostri mali mentre ne sono le principali vittime.

Vittime di cosa?

Di un “sistema ingiusto alla radice” e di una “economia di rapina”, come dice Papa Francesco. Le definiamo migrazioni ma sarebbe più giusto definirle “migrazioni indotte”. L’Occidente ha colonizzato prima politicamente e poi economicamente interi continenti, ne ha razziato le risorse, violentato la natura, ucciso le culture. Ha fatto insomma terra bruciata attorno a chi abitava quei luoghi da millenni. E ora si lamenta se quelle persone vengono da noi disperate a chiedere una mano. Andiamo allora a costruire, non a demolire e rubare: di colpo si fermeranno gli esodi forzati e le tante tragedie a loro connesse, perché il migrare sarà di nuovo una scelta libera, non un destino terribile su cui lucrano mafie e bande criminali.

Dunque, dobbiamo aiutarli a casa loro?

Questa frase è il culmine dell’ipocrisia, un’affermazione con cui il razzismo nasconde la propria cattiva coscienza e cerca di darsi rispettabilità e credibilità. È una copertura suggestiva per nascondere l’indisponibilità all’accoglienza.

Lei è cristiano, e per lei accogliere è un dovere. Ma per chi non lo è?

Accogliere non è un dovere. È un imperativo etico, una legge di coscienza. Che io sento in quanto essere umano, prima ancora che cristiano.

Ma un governante deve mettere al primo posto la protezione dell’umanità in generale, o dei cittadini della propria nazione?

Io credo che un politico che voglia davvero proteggere la propria nazione deve costruire giustizia sociale, fare in modo che a tutte le persone sia riconosciuto il diritto a una vita libera e dignitosa e adoperarsi affinché tale diritto non resti un’enunciazione, un proposito, un articolo di legge. Questo diritto, in Italia e in Europa, si è andato via via sfaldando. Tanto è vero che i Paesi dell’Occidente ricco sono quelli in cui si sono verificati i massimi picchi di disuguaglianza sociale. Altro che protezione.

Perché i razzisti sono anche tra i poveri?

Perché le fasce sociali più fragili e disagiate sono diventate – con la crescita esponenziale di povertà e disoccupazione – un grande bacino di consenso e dunque di potere per gli spacciatori di menzogne e illusioni. È innanzitutto a loro che si rivolge la propaganda razzista.

Il governo alimenta questo messaggio?

Non m’interessa polemizzare con chi governa. Nel nostro Paese è prevalsa – non da oggi e salvo rare eccezioni – la tentazione di fare delle paure un terreno di conquista per futuri bottini elettorali.

A cosa può portare il desiderio dell’uomo forte di cui lei parla?

È la storia a dirci a che cosa ha condotto nei momenti di crisi sociale e economica il “desiderio dell’uomo forte”: a regimi autoritari che hanno aggravato e moltiplicato i mali di cui si proclamavano il rimedio. E questo perché da sempre la principale preoccupazione del cosiddetto “uomo forte” è il proprio ego, il riconoscimento, il tributo e l’ovazione delle masse, non il loro progresso e benessere. Masse abbagliate dalle messinscene del potere, dalle sue parole roboanti e dalle sue dichiarazioni di guerra, dunque masse docili, obbedienti, conformi.

Come se ne può uscire?

Occorre che ciascuno di noi apra gli occhi e si assuma con convinzione la sua parte di responsabilità in quanto custode e artefice del bene comune. Occorre insomma essere cittadini fino in fondo e sempre, come ci esortò a essere 71 anni fa il più radicale e coraggioso degli scritti politici: la nostra Costituzione.

19 Aprile 2019 / by / in ARTICOLI, PER APPROFONDIRE