I nostri approfondimenti

Non lasciamoci soli Casal Bruciato e Torre Maura: continuiamo a illuminare i territori abbandonati

8 maggio 2019

Dopo gli episodi di Torre Maura, a Roma continuano le tensioni e le aggressioni anche in un’altra periferia: Casal Bruciato. Un gruppo di cittadini insieme ai militanti di CasaPound da lunedì sera protesta contro l’assegnazione di una casa popolare a una famiglia rom. Urla, insulti, blocchi, minacce di stupri e di morte, che hanno costretto la famiglia assegnataria, quindi legalmente autorizzata, a entrare nell’alloggio passando dall’ingresso laterale scortata dalle forze dell’ordine.

In un clima politico che di fatto autorizza certe violenze, le forze dell’ordine nulla hanno obiettato persino di fronte all’istallazione di un gazebo da parte di militanti di Casapound – forza dichiaratamente neofascista – accanto al portone di ingresso dello stabile.

Non è un caso lo scoppio di questi episodi nella capitale d’Italia, come non sono un caso l’assenza di reazioni e risposte adeguate dei governanti: nessuna condanna per razzismo, violenza, impedimento di un’operazione legale e nessun investimento per contrastare disuguaglianze ed esclusione sociale, causa principale del peggioramento delle condizioni materiali di un terzo degli italiani.

Proprio come per Torremaura, anche a Casal bruciato spostare il focus su un nemico facilmente individuabile appare più immediato e utile al progetto politico di chi governa. Rom, stranieri, migranti, emarginati, poveri sembrano il capro espiatorio perfetto per fare incetta di voti facendo leva sulla rabbia dei quartieri abbandonati. Il vero problema è invece legato all’aumento senza precedenti di disuguaglianze, povertà ed esclusione sociale. Una ferita profonda, aperta da oltre 10 anni, che non si accenna a ridurre, anzi. Una ferita colpevolmente non curata, infettata da anni di arroganza, incapacità e ipocrisia delle classi dirigenti politiche che si sono alternate al governo. Nessuna esclusa. Perché dalle scelte fatte da chi ha governato è possibile capire chi davvero comanda e chi sono i veri responsabili del clima di paura, disperazione e violenza che si respira nelle periferie italiane oggi. Le scelte fatte in questi anni hanno rispecchiato gli interessi delle élite economiche e finanziarie, italiane come europee e non certo dei ceti medi e dei ceti popolari che continuano a pagare la crisi. Così mentre noi diventavamo sempre più poveri, sono triplicati i “miliardari”: circa 112. A dimostrazione che i soldi ci sono e qualcuno ne ha fatti tanti, a spese di molti.

La crisi è un gigantesco meccanismo di ridistribuzione di danaro dal basso verso l’alto. A questo sono servite le politiche di austerità, l’azzeramento delle politiche sociali, i tagli alla sanità, le privatizzazioni, le modifiche in Costituzione sul pareggio di bilancio, le politiche di workfare, l’introduzione di leggi che hanno legittimato precarietà e sfruttamento lavorativo, le politiche fiscali regressive, l’assenza di investimenti per la cura del territorio e del bene comune. Il presunto governo del cambiamento, si caratterizza per la continuità con quanto fatto in precedenza.

Queste sono le politiche messe in campo in questi anni da chi grida prima gli italiani mentre fa leggi che li impoveriscono da venti anni insieme a evasori fiscali, collusi e mafiosi, o da chi inneggia a un vuoto concetto di onestà calpestando giustizia sociale e umanità ma in realtà obbedisce solo alla lingua dei più forti, o da chi sta mangiando popcorn dopo averci spiegato che l’unico futuro possibile sta nell’accettazione del modello che ha prodotto la crisi e per questo ha tentato di manomettere la Costituzione per “costituzionalizzarlo”.

È questa cultura politica, priva di qualsiasi volontà e capacità di rispondere alla crisi per cambiare le cose, che guida l’amministrazione comunale romana. Questo spiega la vergognosa assenza delle istituzioni nelle periferie delle capitale d’Italia. Sanno bene che al di la della rappresentazione teatrale da fornire ai media e alle solite battute sui social, nella realtà i ceti popolari di questo paese sono stati abbandonati e consegnati alla rabbia e alla disperazione. Questo spiega il disinteresse della giunta Raggi per l’aumento senza precedenti delle disuguaglianze in città. Altrimenti come potremmo giustificare l’ulteriore tagli nel bilancio di 52 milioni di fondi alle politiche sociali? Come potremmo spiegare l’assenza di politiche abitative capaci di garantire il diritto all’abitare in una città in cui quasi ventimila famiglie aspettano casa da quasi vent’anni? Come potremmo spiegare l’incapacità dell’amministrazione di restituire alla comunità i centinaia di beni confiscati alle mafie, nonostante il regolamento sui beni confiscati che per la prima volta è stato approvato grazie soprattutto all’impegno e alla determinazione delle realtà sociali impegnate nella rete dei Numeri Pari? Sono i numeri, i bilanci e le scelte politiche fatte che ci dimostrano da che parte stanno l’amministrazione comunale romane e il governo, e non le dichiarazioni sui giornali. Sono i principali responsabili di quanto sta avvenendo in questi ultimi mesi nelle periferie, della guerra tra poveri e del clima d’odio che si respira nel paese. E l’assenza di una vera opposizione rende il quadro ancor più complicato, perché lascia privi di rappresentanza milioni di cittadini che vorrebbero invece lottare per costruire una speranza e un futuro diverso da quello che ci viene proposto.

Chiaro è quindi che il problema ci riguarda tutti, da chi abita le periferie a chi ne è lontano. Bisogna unire tutti i soggetti e le realtà del sociale convinte che i diritti sociali, la dignità di ogni essere umano e l’impegno contro ogni forma di ingiustizia e razzismo siano le fondamenta sulle quali ricostruire democrazia, partecipazione e illuminare i territori abbandonati.

Rete dei Numeri Pari

9 Maggio 2019 / by / in ARTICOLI, I nostri approfondimenti, PER APPROFONDIRE, Rubrica Ad Alta Voce!
Primo maggio: la festa del lavoro che non c’è – Il lavoro deve tornare a essere un diritto umano

1 maggio 2019

“Senza il diritto al lavoro la persona perde la sua dignità”, affermava Stefano Rodotà. A rileggerle oggi queste parole suonano come schiaffi. In Italia, il 5% più ricco degli italiani è titolare da solo della stessa quota di patrimonio posseduta dal 90% più povero e  il 20% più ricco possiede il 72% del patrimonio totale, mentre il 60% più povero ha appena il 12,4% della ricchezza nazionale. L’aumento della povertà, dopo il 2008, ha contribuito ad accrescere la disparità tra il 20% più ricco e il 20% disagiato, in termini di ricchezza, redditi e consumo. L’Italia è uno dei Paesi dove il rapporto tra ricchezza aggregata totale e il totale dei redditi prodotti ogni anno è tra i più elevati al mondo, una delle nazioni a più elevata intensità capitalistica, dove la ricchezza vale molto più del reddito. E il grande assente nel dibattito politico attuale, alle porte delle elezioni europee, è proprio il tema del lavoro. L’Italia si trova in basso alla classifica dei paesi europei per tassi di occupazione. Un giovane su tre non ha un posto. In 10 anni raddoppiati i sottoccupati. Il 25% ha un impiego inferiore al titolo di studio.

Viene da pensare alla Convenzione Internazionale sui diritti economici, sociali e culturali delle Nazioni Unite che  fa equivalere il lavoro a un diritto umano. Se si considerasse il lavoro come diritto alla dignità, così come sancito dalla nostra Carta costituzionale (articolo 1) che fonda l’ordinamento democratico sul principio-valore del lavoro, si eliminerebbe di conseguenza il lavoro precario, mal pagato, non sicuro, usurante e che provoca problemi di salute.

Un primo maggio nostalgico, che rinvia alla necessita di una produzione legislativa che non abbia più riguardo ai sussidi alla povertà, così come il Reddito di Cittadinanza, ma che capisca la necessità di incentivare la libertà della scelta lavorativa come misura di contrasto dell’esclusione sociale e della ricattabilità dei soggetti in difficoltà, così da garantire la “congruità dell’offerta di lavoro” e non “l’obbligatorietà del lavoro purché sia.

Le misure messe in campo fino ad oggi hanno allargato la distanza tra ricchi e poveri, hanno reso più precario il lavoro, più forte lo sfruttamento e la ricattabilità, intensificando la guerra tra poveri scatenata scientificamente dalla violenza del linguaggio. A tutto questo abbiamo il dovere, il diritto e la responsabilità di ribellarci, continuando a organizzarci, rafforzando le nostre alleanze su proposte concrete in grado di sconfiggere disuguaglianze ed esclusione sociale, raccontando la verità anche quando è scomoda.

Come cittadini abbiamo un obbligo, sancito dall’articolo 2 della Costituzione: la solidarietà. Il Governo ne ha un altro: lavorare per rimuovere gli ostacoli che limitano libertà e uguaglianza impedendo lo sviluppo e la partecipazione di tutti alla vita del paese (articolo 3).

In gioco non c’è solo il diritto a un lavoro dignitoso, ma il diritto all’esistenza di tutti e di tutte.

Rete dei Numeri Pari 

1 Maggio 2019 / by / in ARTICOLI, I nostri approfondimenti, PER APPROFONDIRE, Rubrica Ad Alta Voce!
I figli salvino i padri dalle loro colpe

Il Paese Sera – Giuseppe De Marzo

Dal 1972 parliamo in maniera approfondita di questioni ambientali e delle conseguenze del modello produttivo ed estrattivo capitalista sulla popolazione e sugli ecosistemi.

Era stato appena dato alle stampe “The limit to growth”, I limiti della crescita. Commissionato dal Club di Roma ad alcuni scienziati dell’MIT di Boston, denunciava già 47 anni fa i rischi per la sopravvivenza umana prodotti da un modello di sviluppo fondato sull’idea della crescita economica infinita, a fronte di un pianeta con risorse finite. Dal 1986 parliamo di sviluppo sostenibile e dal 1995 abbiamo fatto 24 conferenze mondiali sul clima, due incontri mondiali per la Terra.

Quasi tutte le grandi multinazionali parlano di green economy e si autocelebrano per la loro preoccupazione nei confronti dell’ambiente. Eppure siamo dinanzi alla più grave crisi ecologica della storia dell’umanità. È evidente che quanto ci viene proposto dalla governance liberista non funziona e che le promesse e gli impegni sono stati traditi. Questo sistema è per sua stessa ammissione insostenibile socialmente ed ecologicamente. Per la prima volta è la nostra sopravvivenza ad essere messa in discussione.

Non è la Terra che deve salvarsi, ma i suoi figli. La Terra sta già trovando nuovi equilibri per garantire il continuum della vita e se non ci adeguiamo e adattiamo alle mutate condizioni, la nostra presenza come specie umana è a rischio. Già oggi i cambiamenti climatici, che sono solo una parte della crisi ecologica, causano milioni di morti, danni per centinaia di miliardi di euro. Per questo sono ritenuti la più grave minaccia alla specie umana.

Distruggere le condizioni di vita del pianeta si traduce per noi, natura umana, in disastri sociali, economici, alimentari, energetici, migratori, finanziari, politici. Basterebbe pensare al dato dei migranti ambientali: sono 157 milioni gli esseri umani che dal 2008 al 2014 sono stati costretti a lasciare affetti, case e paesi. Ogni anno perdiamo 7 milioni di ettari di foreste, ed abbiamo perso già il 65 per cento delle zone umide del pianeta, che da sole sono capaci di assorbire 50 volte in più CO2 rispetto alle foreste. Ogni anno il giorno in cui consumiamo le risorse del pianeta prima che possano essere rigenerate arriva sempre prima. Nel 2018 è stato il primo agosto. La prima volta che è capitato era il 1970, ed era il 29 dicembre.

In meno di cinquanta anni il sistema di sviluppo capitalista ha contratto un debito gigantesco con la Terra: uno spread ecologico che si traduce in aumento di disuguaglianze e povertà ed in perdita di ricchezza netta. Significa che se vogliamo raggiungere la giustizia sociale, la precondizione è quella di garantire la giustizia ambientale. I ragazzi che manifestano per mettere al centro delle priorità politiche la lotta ai cambiamenti climatici hanno perfettamente compreso questa relazione. Per questo si sentono giustamente traditi da una classe dirigente ormai incapace persino di capire quanto sia in gioco.

Se vogliamo evitare che la temperatura del pianeta cresca tra i 2 ed i 4°C, dopo aver indicato in un massimo di 1,5° l’innalzamento consentito, bisogna ridurre le emissioni di CO2 del 40 per cento entro il 2020 e dell’80 per cento entro il 2040. In concreto significa: moratoria sulle estrazioni petrolifere e riduzione dei prelievi ancora operativi; investire nella riconversione ecologica delle attività produttive e della filiera energetica; stop agli investimenti in impianti fossili; sostegno finanziario a fonti rinnovabili e comunità energetiche; riorganizzare la mobilità attraverso interventi pubblici ed un lavoro culturale e di sensibilizzazione che agisca nel medio lungo periodo; contrasto all’agrobusiness, tra i principali inquinatori e avvelenatori del pianeta, per un’agricoltura biologica, multicolturale e multifunzionale; la fine delle politiche di austerità per promuovere investimenti diretti nel lavoro; nessun finanziamento a megaprogetti inefficaci socialmente ed ecologicamente come la TAV o la TAP.

È questa l’unica agenda del cambiamento possibile e desiderabile, capace di garantire giustizia sociale, ambientale ed ecologica, il diritto al lavoro, il diritto alla salute ed i diritti di Madre Terra.

26 Aprile 2019 / by / in ARTICOLI, I nostri approfondimenti, PER APPROFONDIRE
Quando per affermare un diritto (la sicurezza) se ne perde un altro (la libertà) | La direttiva “anti-balordi”: una limitazione di libertà 

24 aprile 2019

I prefetti potranno intervenire «per supplire» alle carenze dei «sindaci distratti». Un provvedimento che è stato inviato dal ministro dell’Interno a tutti i sindaci italiani, con la delimitazione di alcune zone rosse all’interno delle città. «Il Viminale e il decreto sicurezza offrono armi in più per combattere» occupazioni, degrado, abusivismo e illegalità, ha affermato Salvini. In parole povere, una direttiva che si traduce in una “punizione” qualora i sindaci non riescano a far rispettare la tanto discussa sicurezza urbana con misure adeguate, se così si può dire.

Appena un anno fa, Salvini prometteva l’eliminazione dei prefetti per dare più potere ai sindaci. Oggi, consente ai prefetti di scavalcare i sindaci per garantire l’ordine e il decoro urbano. Ancora una volta, però, si perde il punto centrale, il tema reale che sta dietro a tutti questi sistemi di criminalizzazione del povero, dell’emarginato, già iniziati sotto Minniti. Confini di segregazione, zone ghetto in cui confinare chi non si vuole vedere, una deriva securitaria che individua come indesiderate le vittime invece dei carnefici. Depotenziare i sindaci, spesso soggetti a scarse risorse economiche, dati gli ingenti tagli al sociale adoperati dal governo nazionale, è un altro passo verso la distruzione dello stato di diritto. Per salvare la democrazia, diceva Stefano Rodotà, non si può perdere la democrazia. E così ritorna l’eterna questione: quando per affermare un diritto (la sicurezza) se ne perde un altro (la libertà), qualcosa non funziona.

In questo caso, si tratta di restrizioni e limitazioni della libertà, di colpevolizzazione del povero e operazioni di propaganda politica sulla pelle dei più deboli.  La riduzione dei diritti è una risposta facile, che apparentemente rassicura, ma indebolisce la democrazia e non dà strumenti di lotta o di alternativa. La direttiva “anti-balordi” ne è una dimostrazione: contraria alla riserva di giurisdizione e libertà di movimento prevista dalla Costituzione, crea ancora più insicurezza e favorisce l’emarginazione.

La crisi economica, la povertà, il tanto conclamato degrado hanno radici e cause ben più profonde e strutturali di quanto viene solitamente affermato e non sono risolvibili a colpi di direttive. Innanzi tutto, provengono da una visione delle politiche sociali come un costo e non come un investimento e un obbligo, dall’assenza di una misura di sostegno al reddito che non sia un sussidio come il Reddito di cittadinanza, da politiche fiscali regressive e la mancanza di vere misure di contrasto all’evasione fiscale, da politiche di austerità che solo il nostro Paese ha voluto introdurre addirittura in Costituzione con la modifica dell’articolo 81 che impone il pareggio di bilancio e da politiche sul lavoro sbagliate che hanno favorito l’insicurezza sociale, la precarizzazione e abbassato i salari, per citarne alcune.

Non sarà creando delle zone di confine e di segregazione, non sarà sopprimendo il potere democratico, che si arriverà all’eliminazione della povertà e dell’emarginazione.

Martina Di Pirro
24 Aprile 2019 / by / in ARTICOLI, I nostri approfondimenti, PER APPROFONDIRE, Rubrica Ad Alta Voce!
Viaggio nell’Italia che spara – La crescita della violenza è direttamente connessa all’assenza di politiche sociali nei territori

16 aprile 2019

Napoli, Foggia, Milano, Roma. Da Nord a Sud, l’Italia continua a raccontare episodi di differenti modalità ma accomunati dalla violenza degli attacchi, compiuti tutti in pieno giorno, spesso in zone centrali, senza alcun timore delle forze dell’ordine. 

A Foggia, un affiliato ad un’associazione criminale spara ai carabinieri e ne uccide uno per vendicarsi di una perquisizione. A Milano, in zona centrale, viene ferito un uomo forse per un regolamento di conti nell’ambiente dello spaccio di stupefacenti. A Napoli, un agguato alla luce del sole davanti a una scuola ha provocato l’uccisione del nonno dell’alunno e il ferimento del padre. A Roma, spari in pieno giorno hanno provocato due gambizzati davanti al bar Petit, a Cinecittà. Altre, ennesime, dimostrazioni di come le scelte politiche fatte in questi anni abbiano contribuito a far aumentare non solo disuguaglianze e precarietà, ma soprattutto l’insicurezza sociale. Spostare il focus su un facile nemico, urlare alla sicurezza come base della vita di comunità declinandola solo con armi e controlli, chiudere porti e contribuire a far accrescere un problema culturale di radicamento del razzismo e della xenofobia, è un vecchio espediente con il quale le elites cercano di nascondere le proprie responsabilità spostando altrove l’attenzione. A questa operazione di elusione non si sottrae nemmeno questo governo, che anzi è il più feroce nel capovolgere l’ordine delle priorità e delle responsabilità. 

Quanto sta avvenendo da più di dieci anni non ci deve impedire di analizzare e comprendere quali siano le cause della crisi e dell’aumento senza precedenti delle disuguaglianze in Italia. Nonostante il peggioramento delle condizioni materiali di ceti medi e ceti popolari denunciata annualmente da istituti di ricerca e di statistica nazionali ed internazionali, le proposte avanzate da centinaia di associazioni, movimenti e realtà sociali per contrastare le disuguaglianze non sono state mai prese in considerazione in questi anni. Proposte che avevano ed hanno il merito di contrastare allo stesso tempo non solo la povertà ma la criminalità organizzata che continua a trarre enorme guadagno e forza dall’aumento della povertà e delle disuguaglianze. La crescita della cosiddetta zona “grigia” rappresenta uno dei problemi più grandi con cui fare i conti e costituisce la prova e la misura di una serie di interessi convergenti che si sono saldati in questo periodo di crisi.

 Le misure messe in campo da tutte le principali forze politiche in questi anni non solo non hanno contrastato la crisi, ma l’hanno  allargata a livelli mai visti nel nostro paese. Vale la pena ricordarcele: taglio dei fondi per miliardi di euro alle politiche sociali; assenza di una riforma del welfare; assenza di misure di sostegno al reddito come previste dai Social Pillar Europei; assenza di servizi sociali di qualità come ci chiedono le risoluzioni europee; politiche di austerità promosse dalla Troika in Europa ed accettate da tutte le forze politiche presenti in questo Parlamento; assenza di politiche attive per il lavoro e riforme che hanno reso ancora più povero e precario il lavoro; Patto di Stabilità introdotto in Costituzione con la modifica dell’art.81 che ha capovolto la priorità indicata dal legislatore e tagliato miliardi di trasferimenti ai Comuni, costretti a tagliare i servizi essenziali; politiche fiscali regressive che hanno cancellato i ceti medi, impoverito ulteriormente i più poveri e regalato vantaggi ai ricchi, oggi triplicati nel nostro paese; assenza di investimenti in ricerca e istruzione che hanno fatto diventare il nostro paese quello con la generazione di giovani più impoverita dal dopoguerra ad oggi e con una tra le più alte percentuale di dispersione scolastica in Europa.

Quello che più preoccupa è che alla politica oggi al governo ed all’opposizione mancano completamente proposte chiare ed efficaci per uscire dalla crisi. Una politica arida e fragile, anche perchè sempre più incapace di una visione e di un punto di vista generale. E’ per questo che in assenza di proposte, visioni, obiettivi e iniziative politiche coerenti, non possa che scatenarsi una guerra tra poveri che favorisce criminalità organizzata e nazionalismi. Ed è quello a cui stiamo assistendo.

Non è un caso che la crescita dell’insicurezza coincida con una crescita degli episodi di violenza. Lasciare soli i territori, le città, tacerne i problemi reali, ha creato un sistema di protezione sociale, unico vero strumento utile al contrasto di violenza e malaffare, non funzionante e secondario. Come denunciato nel maggio 2016 in Parlamento da Giorgio Alleva, il presidente dell’ISTAT, il sistema di protezione sociale in Italia è tra i meno efficaci a livello europeo. Perché se è vero che la crisi ha una matrice internazionale e scaturisce dall’impossibilità del modello di sviluppo capitalista di garantire sostenibilità sociale e ambientale, è vero anche che l’Italia è riuscita a fare quasi peggio di tutti, schierando risposte che non hanno attutito l’impatto della crisi ma l’hanno amplificata. Chi ha governato in questi ultimi undici anni è quindi responsabile di un sistema di protezione sociale non all’altezza dell’avanzare di disuguaglianze e povertà, che ha favorito mafia e malaffare, contribuendo all’aumento della violenza perchè percepita come unico sistema di difesa personale. Lì dove mancano politica e diritti, si insediano rimedi che nulla hanno a che fare con la sicurezza, la legalità e, tanto meno, la giustizia sociale. 

Di Giuseppe De Marzo e Martina Di Pirro

16 Aprile 2019 / by / in ARTICOLI, I nostri approfondimenti, PER APPROFONDIRE, Rubrica Ad Alta Voce!
Il nemico è chi affama – A Torre Maura il fascismo si combatte mettendosi insieme e illuminando i territori abbandonati

9 aprile 2019

A Torre Maura, tra decine di migliaia di famiglie senza casa, spazi verdi a rischio chiusura, edifici abbandonati in attesa di conversione e desertificazione commerciale, Casapound ha portato in scena un teatrino che ha nuovamente tentato di spostare il focus reale. Non più responsabilità di chi affama, ma di chi ha fame. Così, i ROM sembrano il capro espiatorio perfetto per fare incetta di voti provando a far leva sulla rabbia del quartiere. A dirlo, senza mezzi termini, è un ragazzo appena quindicenne che, ad alta voce, ricorda il senso di tutta una politica: nessuno andrebbe lasciato indietro. A ribadirlo, sono le associazioni, i cittadini e le cittadine, le reti e i sindacati, che sabato scorso sono scesi in piazza per bloccare quella che era, a tutti gli effetti, un’aggressione razzista e fascista. In una guerra tra aggressori razzisti e aggrediti stranieri, ma anche a una più generale battaglia contro i più deboli, qualunque sia il colore della pelle, ci si dimentica di avere riguardo alle condizioni delle persone, ai diritti e alle responsabilità della politica che continua ad aumentare le disuguaglianze tagliando i fondi per le politiche sociali e per i servizi mentre a livello nazionale vengono mantenute politiche di austerità.

In una situazione tale, il linguaggio è la parte essenziale. Per chi è abituato a non trovare soluzione, a evitare di affrontare i disagi reali di chi vive le periferie, la mancanza di politiche abitative e di investimenti sul lavoro, la precaria, se non inesistente, manutenzione dei territori e delle infrastrutture, appare immediato prendersela con chi è messo ancora peggio. Il nemico è il rom, il migrante, il povero. Non la povertà, che invece per dare concime al terreno delle mafie e della corruzione è un utile alleato. Solo il povero in quanto tale, il povero in quanto persona. Si scarica sul più debole una responsabilità che è piuttosto di chi governa, dell’assenza di una volontà politica che provano a spacciare per mancanza di risorse. Le risorse, economiche e politiche, ci sono, esistono.

L’amministrazione comunale della Capitale d’Italia ha tagliato nel bilancio 52milioni di fondi alle politiche sociali. A dimostrazione che la volontà della classe dirigente sceglie deliberatamente di girarsi dall’altra parte, scatenando episodi di violenza razzista sempre più diffusi sul territorio nazionale e la guerra del povero contro il più povero. Una strategia voluta, pensata, ormai alla luce del sole. Non è un caso la situazione in cui il Paese intero si trova. È compito della geografia della speranza, dei vinti che stanno subendo le conseguenze, mettersi insieme ed invertire la rotta illuminando i territori abbandonati.

Martina Di Pirro

9 Aprile 2019 / by / in ARTICOLI, I nostri approfondimenti, PER APPROFONDIRE, Rubrica Ad Alta Voce!
Fridays for future al crocevia

Di Guido Viale

Quanto ha inciso la comparsa mediatica di Greta Thunberg sulle scelte dei politici italiani, europei e mondiali? Encefalogramma piatto; omaggi frettolosi e formali; programmi e sproloqui di chi è convinto che l’unico problema vero resti “la crescita”. Da loro, fino a che Friday for future non si sarà moltiplicato per cento, non c’è da aspettarsi niente. Ragazze e ragazzi dovranno cavarsela da soli; insieme agli scienziati che ne hanno innescato i timori – anzi, il “panico” – e ai (pochi) genitori e nonni disposti ad ascoltarli. Per crescere Friday for future dovrà organizzarsi, e lo sta facendo; ma dovrà anche discutere e decidere che cammino percorrere. Ha di fronte due vie alternative, entrambe estranee, per ora, alla dialettica che si svolge tra le forze politiche ufficiali.

La prima è la via rivendicativa: mettere a punto una piattaforma che rispecchi l’entità e soprattutto i tempi strettissimi delle misure necessarie a evitare la catastrofe, sostenendole con mobilitazioni sempre più estese, articolate e radicali, e negoziare con le autorità perché le adottino. Ma quali autorità? Nessuna sembra avere più il potere di realizzare radicali cambi di rotta: le autorità scolastiche sono schiacciate dai regolamenti; ai Comuni mancano i fondi (il che non impedisce loro di imbarcarsi in imprese sciagurate come le Olimpiadi); il Governo è prigioniero del debito e di “autorità” sovranazionali che continuano a minacciarci la fine della Grecia; il Parlamento europeo non conta nulla; Commissione e BCE sono in mano alla finanza mondiale; e la finanza mondiale, chi è? Se gli operai non hanno più di fronte solo un padrone con cui aprire e chiudere una vertenza, ma un intero sistema, sempre più anonimo, che può chiudere, delocalizzare, licenziare quando vuole, neanche la rivendicazione di una svolta radicale che mobilita tante ragazze e ragazzi ha una vera controparte con cui negoziare.

La seconda via è costruttiva: si comincia con le cose che si è in grado di fare là dove la propria iniziativa può arrivare: nella scuola, nel condominio, nel quartiere, nella città. Occorre capire che cosa serve per promuovere lì quella svolta: in termini di conversione energetica, di cambio dell’alimentazione – e dei rapporti con chi produce il cibo, come fanno i Gruppi di acquisto solidale, vero modello di chi antepone il fare al rivendicare – di mobilità, edilizia, salvaguardia del verde e della biodiversità, recupero di scarti e rifiuti, ecc. Poi si progettano quei cambiamenti: all’inizio in termini generali, cercando l’aiuto di tecnici disponibili e coinvolgendo quante più persone possibile, compresi, se si può, Comuni, associazioni, parrocchie, sindacati, ecc. Muovendosi lungo questa via, la controparte non tarderà a farsi sentire. Il movimento NoTav della Valdisusa è diventato un caso nazionale non solo per aver detto No a un’opera sciagurata – anche e soprattutto per il clima – ma perché ha studiato il progetto, ne ha mostrato l’assurdità, ha avanzato proposte diverse, ha costruito informazione, partecipazione e iniziative sociali ed economiche alternative: per questo le controparti si sono subito fatte vive. Fin troppe: politici, imprese, media, Procura e sindacati: tutti in marcia verso il disastro climatico. Agli operai licenziati della Maflow (ora Rimaflow) di Trezzano è stata chiusa e delocalizzata la fabbrica portando via i macchinari. Ma loro non si sono limitati a chiedere riassunzione, intervento dello Stato, un nuovo padrone: non li avrebbero ottenuti. Hanno occupato quei locali vuoti riempiendoli di nuove attività: botteghe artigiane, studi legali, impianti di riciclo, fiere, feste, incontri, coinvolgendo migliaia di persone e diventando un caso nazionale. Per cercare di fermarli è intervenuta la magistratura con accuse infami quanto infondate. Come a Riace. Lì, di fronte centinaia a di profughi sbarcati nella notte sulla spiaggia il sindaco non ha rivendicato solo un sistema migliore di accoglienza: lo ha inventato e costruito insieme ai compaesani e ai nuovi ospiti; anche qui la controparte si è subito fatta viva; con Salvini e una magistratura complice. In questi casi, e in tutti quelli simili, la partita ora si gioca in termini di mobilitazione. Certo, i loro avversari sono ancora molto forti e nel nostro caso, le mummie cieche e sorde ai cambiamenti climatici lo sono ancor di più. Ma così diventa chiaro chi c’è da una parte e chi dall’altra; e costruzione e rivendicazione marciano insieme.

Friday for future si trova di fronte altri quattro dilemmi. Primo: conciliare una visione globale, quella degli scienziati del clima, con pratiche e mobilitazioni locali su progetti concreti. Due: unire la dimensione ambientale e quella sociale: perhé a subire le conseguenze più gravi dei cambiamenti climatici sono i poveri della Terra, a partire dai migranti scacciati dai loro paesi da siccità, alluvioni e disastri ambientali; ma anche gli abitanti dei quartieri più esposti all’inquinamento sono sempre i più poveri. Poi, bloccare uso dei fossili e produzione di CO2 vuol dire chiudere in pochi anni impianti, fabbriche e progetti che impiegano milioni di lavoratori. Non si può farlo senza offrir loro, con la conversione ecologica, un impiego alternativo: più sano, più utile e più soddisfacente. E’ un passaggio che non si può lasciare ai Governi: deve coinvolgerci tutti, a partire, e non è facile, dai lavoratori interessati. Tre: scienza e politica. Gli scienziati negazionisti sono ormai una sparuta (e ben retribuita) minoranza; ma quelli che lavorano a far progredire il disastro climatico sono ancora un esercito. Per esempio, la senatrice Cattaneo: che mette quello che sa, e anche quello che non sa, a disposizione della lotta contro l’agricoltura biologica, a favore di quella industriale: una delle principali fonti di gas serra, oltre che di malattie mortali. Ma i saperi degli scienziati consapevoli devono essere tradotti in pratica: compito che non può essere delegato a politici e industriali. Se ne devono far carico, in termini progettuali e in modo condiviso, tutti coloro che sono impegnati in questa lotta. Che saranno sempre di più, perché il cambiamento climatico non darà tregua, con effetti sempre più pesanti. Ultimo: non dar credito scientifico all’economia: è una disciplina che continua a tradurre tutto in denaro, in prezzi: l’esempio più grottesco è l’analisi costi-benefici del TAV, che non calcola i costi della devastazione di una intera comunità e quelli del contributo di quel progetto all’apocalisse climatica. Ovvio: non hanno prezzo.

8 Aprile 2019 / by / in ARTICOLI, I nostri approfondimenti, PER APPROFONDIRE
Una marea in difesa dei diritti – Razzismo e patriarcato come forme dello stesso sfruttamento

2 aprile 2019

Ddl Pillon, riforma dello stato di famiglia, revisione della Legge 194, reintroduzione delle case chiuse, cancellazione delle unioni civili. Solo alcune delle proposte di legge portate avanti durante il Congresso delle Famiglie di Verona. E poi ancora feti di plastica, parate politiche per tentare di eliminare non solo quanto le donne hanno faticosamente conquistato, ma anche tutti quei diritti, politici, sociali ed economici, la cui attuazione va contro ogni forma di dominio e di oppressione.

Centomila persone in piazza a Verona, il 30 marzo, hanno invece dimostrato il rilievo che le pratiche femministe hanno assunto a livello mondiale, proponendosi come una delle forze maggiori di contrasto al razzismo, al sovranismo e alla devastazione culturale ed ambientale.

Una manifestazione trasversale, in grado di collegare la lotta per la libertà di abortire ai diritti dei migranti e in grado di riaffermare lo stretto legame tra razzismo e patriarcato come forme dello stesso sfruttamento.

Gli impoveriti dalle politiche del governo camminano a braccetto, trasformano rabbia in condivisione, impegno e partecipazione. Contro un congresso medievale, si oppongono i concetti di giustizia ecologica e sociale, parità di diritti, reddito minimo garantito.

A fronte di un’inazione delle forze al governo, sempre sull’orlo dell’emergenza, senza spazi per il futuro, il 30 marzo a Verona si è declinato un modello di società e di economia esterna alla visione dominante della governance. Nel silenzio assordante dei media nazionali, si è invece contribuito a dare forza ad una relazione sempre più stretta e necessaria tra giustizia sociale, ambientale ed ecologica con il diritto della vita alla scelta di vita posto al centro del dibattito. Un nuovo paradigma di civilizzazione, che inverte la rotta rispetto all’accettazione delle politiche liberiste in campo, si oppone ad una povertà culturale e relazionale, per certi versi peggiore di quella economica, e ricorda le responsabilità e le priorità così come stabilite dalla nostra Costituzione: prima la garanzia di quelli che Stefano Rodotà chiamava “super diritti” (civili e sociali) e il perseguimento de “l’intangibilità della dignità umana” in tutte le sue forme.

Martina Di Pirro

2 Aprile 2019 / by / in ARTICOLI, I nostri approfondimenti, Rubrica Ad Alta Voce!
Noi siamo la terra – Il legame imprescindibile tra cambiamento climatico e diseguaglianze

26 marzo 2019

Il cambiamento climatico prima di tutto. Due marce per il clima e le grandi opere inutili che hanno polarizzato l’attenzione non solo a Roma ma in tutto il Paese, con studenti e studentesse, comitati e movimenti in prima fila. Migliaia di persone in piazza per tenere alta l’attenzione sui temi ambientali, e ricordare come il cambiamento climatico stia assumendo sempre più il ruolo di variabile determinante nell’amplificare i fattori di crisi e contribuisca a incrementare il livello di instabilità interna dei Paesi. Cambiamento climatico e aumento delle diseguaglianze sono, secondo il World Economic Forum, le maggiori tendenze che daranno forma agli sviluppi globali nel prossimo decennio, di fronte alle quali è urgente un’azione collaborativa per scongiurare future difficoltà e volatilità.

Dal 1992, agenzie ONU hanno dimostrato come vi sia una evidente relazione tra l’aumento delle diseguaglianze e la distruzione ambientale, conseguenza di un modello di sviluppo che eccede i limiti della Terra e le capacità di autorigenerazione dei cicli naturali. Un legame che dipende dalla ricchezza che la governance economica continua a distruggere, più che a creare.

Concentrarsi su una concezione antropocentrica del mondo, errore di cui ora si vedono le conseguenze, considerare tutte le forma di vita non umane come assoggettabili e ad uso e consumo dell’uomo, ignorare le relazioni di forte interdipendenza che legano gli esseri umani alle altre specie e all’ambiente è stata la ricetta per incrementare le modalità distruttive del sistema capitalistico.

Se giustizia ambientale significa equa distribuzione delle risorse e dei vantaggi, l’obiettivo di ogni comunità dovrebbe essere quello di garantirla. Per le forze produttive la strada è quindi una sola: riconvertirsi ecologicamente per assicurare giustizia distributiva. Solo così può esserci una risposta alla domanda di lavoro, alla difesa dei beni comuni, alla salute pubblica e alla crisi allarmante di democrazia.

Equità sociale e giustizia distributiva nell’accesso alle risorse naturali consentirebbero di raggiungere un modello di società sostenibile. E’ immediato così comprendere come diritti della natura e diritti umani siano strettamente collegati e il loro rispetto garantisca  l’integrità sia dei processi naturali, sia dei processi di partecipazione democratica. La crisi globale nel campo dei diritti umani è conseguenza diretta dell’incapacità del modello economico di garantire l’accesso alla risorse. La risposta può trovarsi solo in forme di democrazia partecipativa e comunitaria, partendo da specificità locali che intrecciano questioni apparentemente separate per arrivare ad una visione d’insieme capace di agire anche sul piano globale.

Mettere insieme una “geografia della speranza”, un pensiero lungo e rivoluzionario con al centro i temi della giustizia ambientale e i movimenti che la perseguono appare l’unico modo per uscire da una crisi che continua a schiacciare con forza i territori feriti, i diritti umani, l’equità e i diritti della Natura.

Martina Di Pirro

27 Marzo 2019 / by / in ARTICOLI, I nostri approfondimenti, Rubrica Ad Alta Voce!
La primavera delle coscienze – 21 marzo, XXIV Giornata nazionale della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie

19 marzo 2019

Primo giorno di primavera, il 21 marzo sarà la XXIV Giornata nazionale della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie. Un momento di raduno collettivo nella lotta alla criminalità organizzata e alla corruzione che passa, prima di tutto, dalla memoria delle oltre 900 vittime innocenti delle mafie affinché ognuno possa essere portavoce di una richiesta di verità e giustizia. Una memoria condivisa, viva, partecipe, che nomina ad alta voce, una ad una, tutte le vittime in pari dignità, a prescindere dai ruoli, dalla notorietà, dalle circostanze. Non solo un simbolo, ma una tappa del quotidiano impegno di ognuno per la giustizia, per la verità, per il bene comune.

Ufficialmente istituita per legge il 1 marzo del 2017 con voto unanime della Camera dei Deputati come giornata nazionale ma celebrata già dal 1996 su iniziativa di Libera e Avviso Pubblico, quest’anno la piazza principale sarà a Padova che accoglierà la manifestazione nazionale intitolata “Passaggio a Nord Est, orizzonti di giustizia sociale”, e simultaneamente si svolgerà in migliaia di luoghi d’Italia, d’Europa e dell’America Latina. Una scelta per stare vicino a chi non si rassegna alla violenza mafiosa, alla corruzione e agli abusi di potere e per valorizzare l’opera di tante realtà, laiche e cattoliche, istituzionali e associative, impegnate per il bene comune, per la dignità e la libertà delle persone.

Formia ospiterà invece la giornata della memoria e dell’impegno organizzata da Libera nel Lazio. La provincia di Latina, si legge nel comunicato, segue quella di Roma per sequestri e arresti antidroga e per numero di beni confiscati, una terra segnata dalla storica presenza delle camorre, dalle pressioni delle ‘ndrine calabresi o dei gruppi legati ai Casamonica, fino all’aumento di intimidazioni agli amministratori pubblici.

La Rete dei Numeri Pari, ha accolto la proposta maturata dal Coordinamento docenti contro mafie, povertà e razzismo di organizzare la manifestazione nel quartiere della Romanina. Nella periferia sud-est della capitale d’Italia, la Romanina è un territorio sotto scacco del clan dei Casamonica, ma anche luogo di esperienze positive di una comunità solidale e corresponsabile, crocevia di bisogni, desideri e speranze di chi abita i luoghi e gli spazi. Una giornata di investimento culturale ed educativo, che, dalle ore 9 alle ore 13, nel Giardino della Giustizia in viale Luigi Schiavonetti, si tramuterà in spettacoli teatrali, concerti, incontri con le associazioni e studenti.

Con 94 clan a terra, più di 100 piazze dello spaccio e lo scoppio di ‘Mafia Capitale’, parlare di mafia a Roma è ancora complicato. “ Accettare il faccia a faccia sui territori rappresenta una precondizione necessaria se si intende veramente invertire la rotta in questa città”, afferma la Rete dei Numeri Pari “È necessario dirci, con meno ipocrisia rispetto a chi ci governa, che la forza delle mafie sta fuori dalle mafie, nelle culture e nei comportamenti complici e funzionali, nella zona grigia, nelle convergenze e nelle alleanze, nel familismo amorale, nel relativismo e nell’insofferenza per la democrazia, nella deresponsabilizzazione degli individui, nella povertà e nelle disuguaglianze. Più aumentano le disuguaglianze e le povertà in Italia e a Roma e più saranno forti le mafie e la corruzione, più i governi saranno incapaci di garantire servizi nelle periferie e maggiore sarà la guerra tra poveri e il razzismo, che altro non è che l’espressione dell’esclusione sociale istituzionalizzata. La precondizione per sconfiggere le mafie sta nella giustizia sociale e per questo c’è bisogno di un pensiero lungo in questa città e non di slogan.” Un esercizio di memoria non isolato ma accompagnato da azioni quotidiane concrete che la Rete dei Numeri Pari porta avanti nel territorio da più di un anno, collaborando con insegnanti, studenti, associazioni e comitati, organizzando laboratori, iniziative e creando legami. Una cucitura solidale tra reti e persone di cui la giornata del 21 marzo è espressione e che combatte mafia, corruzione e povertà illuminando con forza i luoghi dove sono state per troppo tempo protagoniste.

Un momento per ricordare, ad alta voce, come la primavera delle coscienze richieda di non essere cittadini ad intermittenza ma di assumersi l’impegno a non delegare, ad agire, ad allontanare indifferenza e rassegnazione, a non lasciare soli quei territori che costantemente si rapportano con fenomeni di violenza mafiosa.

Martina Di Pirro

18 Marzo 2019 / by / in ARTICOLI, I nostri approfondimenti, Mafie, corruzione e zona grigia, PER APPROFONDIRE, Rubrica Ad Alta Voce!