Servizi sociali

Emergenza Elianto: la cooperativa Iskra chiede incontro urgentissimo al Comitato Istituzionale del Distretto RM 5.1 per scongiurare chiusura servizio

la cooperativa Iskra ha richiesto un incontro urgentissimo al Comitato Istituzionale del Distretto RM 5.1., per cercare comunicazioni ufficiali che diano risposte certe sul futuro di questo servizio. Di seguito riportiamo la lettera che i familiari degli ospiti di Elianto hanno voluto inviare al su citato Comitato e, per conoscenza, ai referenti politici e tecnici della Regione Lazio.

Monterotondo 02.05.2019

Siamo i figli, i nipoti i familiari delle persone che frequentano il Centro Diurno Anziani Fragili Elianto. Vogliamo presentare con forza le nostre perplessità sul possibile taglio dei fondi destinati a tale servizio.

Il servizio agli anziani del territorio è, secondo noi, una fondamentale risorsa non solo alle famiglie degli anziani, ma alle persone stesse che si trovano ad usufruirne. Un servizio che nel corso degli anni ha dimostrato di avere un valore particolare. Viviamo in una società, dove a volte la dinamicità della vita familiare, con l’ovvia necessità del lavoro di tutti i membri della famiglia porta ad avere scarsa possibilità di dare la giusta attenzione e cura alle persone anziane che non riescono a tenere il ritmo della vita stessa.

Il servizio Elianto ha posto al centro la fragilità di queste persone valorizzando le loro risorse e permettendo loro di avere una vita relazionale ricca di scambi e di conoscenze.

Queste attività servono soprattutto a “risvegliare” gli animi di quanti e quante magari hanno pensato di non avere più opportunità e si sono lasciati un po’ morire dentro. Entrare a far parte del gruppo, della comunità Elianto ha fatto rifiorire in loro la voglia di fare e vivere appieno le opportunità offerte. Tutti gli eventi organizzati sono sempre molto partecipati con entusiasmo da tutti gli ospiti, che sono talmente fieri del loro “luogo speciale” da sentire la necessità di coinvolgere le famiglie, in modo da rendere questo momento aggregante anche a livelli diversi del gruppo tra pari.

Elianto non è un centro anziani, non è una casa di riposo… È il luogo dove molte persone hanno ritrovato la voglia di vivere, uscendo da situazioni personali che gli esperti potrebbero definire “Depressione Senile”, cioè quella situazione in cui la persona che si rende conto di non avere più le energie di un tempo, inizia a pensare di essere un peso per chi li circonda e comincia a chiudersi in se stesso riducendo sempre di più lo spazio vitale fino a limitarlo a se stessi.

In questo luogo le persone trovano degli amici che li “costringono” ad uscire di casa, a parlare con gli altri, a confrontarsi tra loro, a conoscere l’evoluzione della società che li circonda, a trasmettere le proprie conoscenze a persone più giovani, a fare esperienze esterne di scoperta di luoghi nuovi. E talmente tante altre cose che risulta difficile elencarle tutte. Alla fine quello che conta è che nello stare con gli altri le persone ritrovano la voglia di vivere e godere di quanto ancora la vita offre.

Negare questa possibilità, oltre a spezzare un percorso già intrapreso, ritenuto positivo sia dagli ospiti del centro che dalle famiglie, ha delle ripercussioni molto significative. La mancanza degli stimoli opportuni offerti in maniera professionale dagli operatori del centro lascia lo spazio al progressivo decadimento cognitivo che è la naturale evoluzione sia dell’età che della solitudine. Il percorso naturale è quello che poi porta al deperimento, aumentando quindi le necessita di cure sanitarie, fino ad arrivare all’ospedalizzazione che, oltre a peggiorare ulteriormente lo stato dell’anziano, comporta un aumento della spesa sanitaria ed il possibile aumento della mortalità.

Tale opportunità è garantita anche dalla Legge regionale n. 41 Del 2003 e ribadita dal DGR 1305 del 2004. In questi documenti si legge:

LR 41 Del 2003: Articolo 1 punto 2 “I servizi socio-assistenziali di cui al comma 1, lettera a), sono rivolti a… c) anziani, per interventi socio-assistenziali finalizzati al mantenimento ed al recupero delle residue capacità di autonomia della persona ed al sostegno della famiglia, sulla base di un piano personalizzato”;

DGR 1305 2004: “Le strutture a ciclo residenziale e semiresidenziale indicate dall’articolo 1, comma 1, Lettera a), della L.R. n. 41/2003, di seguito denominate anche strutture residenziali e semiresidenziali o strutture, prestano servizi socioassistenziali finalizzati al mantenimento ed al recupero dei livelli di autonomia delle persone anziane ed al sostegno della loro famiglia, sulla base di un piano personalizzato di intervento, come definito dall’articolo 1, comma 2, lettera c) della medesima legge.”… ” Le strutture a ciclo residenziale e semiresidenziale per anziani costituiscono uno dei servizi che offre una risposta socio-assistenziale al bisogno di tipo residenziale, tutelare, di autorealizzazione e di inclusione sociale dell’anziano, dando una risposta adeguata ad anziani autosufficienti e parzialmente non autosufficienti che richiedono garanzie di protezione nell’arco dell’intera giornata.”… “Il servizio … per anziani si ispira ai principi di partecipazione, sussidiarietà e si fonda sulla centralità del bisogno del cittadino utente, attraverso la partecipazione delle scelte tra servizi, operatori e destinatari, relativamente alla progettazione, all’organizzazione comune degli interventi ed all’attuazione dei progetti personalizzati di assistenza.”… ” l’attività della giornata è tale da soddisfare i bisogni assistenziali e di riabilitazione sociale degli ospiti, sopperendo alle difficoltà che la persona anziana incontrerebbe nel provvedervi con la sola propria iniziativa, promuovendo una sempre migliore qualità della vita e una sempre maggiore inclusione sociale. Tutte le attività e gli interventi hanno come finalità quella di aiutare l’ospite anziano a vivere la vita nel pieno delle proprie potenzialità, con un programma basato sul rafforzamento delle capacità, attraverso azioni di stimolo, sostegno e accompagnamento.”… ” L’attività … ha come finalità l’inclusione sociale dell’anziano, il sostegno alla famiglia e si propone come valida alternativa all’istituzionalizzazione.”

I nostri anziani sono, per noi, preziosi ed Elianto ci aiuta a fare si che la loro ricchezza interiore rimanga viva più a lungo.
Per questo motivo siamo fortemente contrari ai tagli dei fondi che potrebbero portare, in maniera naturale, alla definitiva perdita dell’opportunità offerta non solo agli ospiti anziani, non solo alle famiglie ma alla società civile tutta.
Chiediamo pertanto a questo Comitato Istituzionale di rivalutare la significatività di questo servizio garantendo il sovvenzionamento costante nel tempo e su tutto il territorio del Distretto.

Chiediamo a questo Comitato Istituzionale di essere incontrati con urgenza per valutare le nostre istanze, e per conoscere le Vostre scelte.

I Famigliari del Centro Diurno Elianto

3 Maggio 2019 / by / in ARTICOLI, Servizi sociali
L’Italia e il traino delle cooperative

Le cooperative sono quasi 60mila in Italia, da sole danno lavoro al 7% dei dipendenti privati. Il Rapporto Istat-Euricse: sono le uniche realtà a crescere negli anni della crisi. Stefano Granata (Federsolidarietà): «Ma adesso serve un passo avanti»

di Paolo Riva

Non una nicchia, ma una parte importante della nostra economia. Che ha retto bene la crisi e fa sempre più parte di una strategia di sviluppo del Paese. È l’immagine delle cooperative italiane che emerge dal primo rapporto Istat- Euricse dedicato a struttura e performance del settore nel 2015. In Italia le cooperative sono 59.027, occupano poco meno di 1,2 milioni di addetti che rappresentano il 7,1 per cento dei lavoratori occupati complessivamente nelle imprese, e generano un valore aggiunto di 28,6 miliardi di euro (senza contare le cooperative del settore finanziario e assicurativo). Le cooperative più diffuse, quasi la metà del totale, sono quelle di lavoro. Sono seguite dalle cooperative sociali, d’utenza o consumo, e del settore primario. «Per la prima volta- commenta per Buone Notizie il presidente di Euricse, Carlo Borzaga – grazie a questo rapporto abbiamo un riferimento definitivo sulle dimensioni del settore cooperativo, non solo per smettere di sottovalutarlo ma anche per smentire alcuni stereotipi negativi, come quello sulle condizioni di lavoro».

Per lo studio Istat-Euricse i lavoratori dipendenti delle cooperative sono soprattutto donne (52 per cento), fra i trenta e i 49 anni (58,5 per cento) e in più di otto casi su dieci hanno un contratto a tempo indeterminato. Quello dei posti di lavoro è un tema centrale anche per capire come è stata affrontata la crisi. Secondo il presidente dell’Alleanza delle Cooperative Maurizio Gardini «le cooperative hanno rappresentato un argine alla perdita di occupazione». Nello specifico: «Sacrificando utili e patrimonializzazione nelle nostre imprese gli occupati sono cresciuti del 17 per cento mentre sono diminuiti di oltre il 6 per cento in tutte le altre società», ha dichiarato Gardini all’assemblea dell’organizzazione lo scorso febbraio, citando proprio il rapporto Istat-Euricse. E a crescere in maniera simile è stato anche il numero delle cooperative, che nel 2007 erano 50.691. «La cooperazione ha un sistema di crescita anticiclico.

Durante la crisi siamo stati resilienti e abbiamo tutelato innanzitutto i soci lavoratori», spiega a Buone Notizie Stefano Granata, presidente di Cgm e Federsolidarietà. È il tipico caso di ricadute indirette positive – interviene di nuovo Borzaga – che il settore garantisce alla collettività. «Aumentando gli occupati, le cooperative hanno generato un risparmio per lo Stato in termini di ammortizzatori sociali non erogati. Ma ci sono anche altri esempi. Le coop sociali di tipo B, che danno lavoro a persone fragili, producono in media quattromila euro di risparmi per addetto». Altro esempio: «In Trentino le cooperative agricole garantiscono una cura del territorio attenta e capillare». E così via. Ma non basta: per il presidente di Euricse la cooperazione sociale ha fatto moltissimo per cogliere i bisogni dei territori e trasformarli in servizi. Granata è d’accordo: è questa la strada su cui continuare ora che la crescita conosciuta tra il 2007 e il 2015 si è esaurita attestandosi su livelli decisamente inferiori. «Da un lato – argomenta – la crisi ha accelerato un processo già in atto: l’aumento delle dimensioni delle nostre imprese. Dall’altro le cooperative, soprattutto quelle sociali che rappresento con Federsolidarietà, sono andate maggiormente sul mercato, non lavorando più solamente in appalto con le pubbliche amministrazioni, ma cercando clienti tra i privati, aziende e cittadini. È un bene perché così si aprono opportunità enormi ».

Certo, esistono anche delle criticità. Le cooperative sono ormai presenti in tutto il Paese, ma la capacità di generare ricchezza non è uniforme e le differenze tra nord e sud sono ancora significative. C’è poi il tema delle false cooperative. Si stima che impieghino circa 100mila addetti, arrecando un grave danno di immagine a tutto il comparto che, infatti, sta chiedendo a gran voce l’approvazione di una legge di iniziativa popolare per contrastarle. «Ne abbiamo bisogno come il pane. Oggi quando parliamo di cooperative la gente si mette le mani nei capelli», ammette Granata. Una maggiore credibilità sarebbe invece fondamentale in questo frangente. Secondo il presidente di Cgm, consorzio che raggruppa oltre 700 realtà in tutta Italia, la sfida per il futuro è rispondere in maniera sostenibile ai bisogni emergenti, cui lo Stato non riesce più a far fronte da solo.

La cura degli anziani è un esempio e già oggi le cooperative che si occupano di sanità e assistenza sono quelle che impiegano più addetti e generano il maggior valore aggiunto. E i margini di crescita sono ancora ampi, per esempio, nell’ambito del welfare aziendale. «In questa fase dobbiamo investire e per farlo abbiamo bisogno di un sistema pubblico, ma anche privato, profit, in grado di immettere capitale nel nostro settore. Alle istituzioni non chiediamo tanto interventi specifici per la cooperazione, quanto piuttosto di essere coinvolti in quei processi che andranno a costruire nuove risposte per i nuovi bisogni della società». Anche il professor Borzaga, che studia il fenomeno da tempo, è ottimista riguardo al futuro. «Dopo una fase di involuzione negli anni del fordismo, la cooperazione sta tornando ad assumere un’importanza crescente come modello dell’attività economica. E questo perché mette al centro il fattore umano e l’interesse generale».

https://www.corriere.it/buone-notizie/19_aprile_25/quanto-siamo-cooperattivi-11f214d4-6699-11e9-b785-26fa269d7173.shtml?fbclid=IwAR3orNprHYw_8f2oLMwqYDcqtOWuQVy5xvEVeOYLnvL4AZVMA3eV3RBRD34

26 Aprile 2019 / by / in ARTICOLI, Servizi sociali
“Sei 1 di noi” 30/11 incontro pubblico su Servizi e sicurezza sociale

Che cos’è e chi riguarda la sicurezza sociale? Quali scelte politiche richiede, per essere garantita? Chi può contribuire a rafforzarla?
Queste alcune delle domande che ci poniamo e su cui vogliamo confrontarci in questa assemblea cittadina.

Definire una spesa per i servizi sociali, adeguata al livello di disagio che oggi esprimono tutti i territori della città, significa ripensare alle priorità. Il crescente approccio assistenzialista delle politiche messe in campo e i pesanti tagli previsti per i servizi alla persona, a partire da quelli per l’integrazione, delineano uno scenario futuro più che preoccupante.

Alto sarà il prezzo che la società pagherà in termini di rischi per la sicurezza, se non si sostengono adeguatamente fragilità sociali e non si investe su azioni di prevenzione. Assistiamo sempre più ad un rilevante passo indietro sulle tante buone pratiche che, in questi
anni, le Organizzazioni del sociale hanno messo in piedi. I grandi cambiamenti sulla spesa sociale devono avvenire a livello nazionale ma, già oggi, è necessario mobilitarsi per far crescere la partecipazione sul territorio cittadino e sollecitare i necessari ed urgenti cambiamenti, che da subito si possono attivare.

Le Organizzazioni del sociale sono certe di di poter dare quel contributo essenziale, per declinare il termine sicurezza con adeguate azioni ed interventi nei servizi sociali.

Ne parleranno con:
FRANCESCA DANESE Forum del Terzo Settore
MARIO GERMAN DE LUCA CESV
GIUSEPPE DE MARZO Libera
DON NICOLA DI PONZIO Vice parroco s. Giustino
MASSIMO MARTORANA Il Trattore cooperativa sociale
CONCETTA RICCO Cospexa cooperativa sociale
MAURIZIO SIMMINI Iskra cooperativa sociale
CLAUDIO TOSI Cemea
ANNA VETTIGLI Legacoopsociali Lazio

Verso la manifestazione del 1 dicembre: https://www.facebook.com/events/292793531443977/

Evento fb assemblea 30 novembre: https://www.facebook.com/events/331434274335326/

30 Novembre 2018 / by / in ARTICOLI, MANIFESTAZIONI E INIZIATIVE, Sei 1 di noi, Servizi sociali
La manovra della guerra tra poveri

Il Manifesto | 21 ottobre 2018

Il governo delle destre. Il finto reddito di cittadinanza stigmatizza chi è in difficoltà facendo passare il cosiddetto «povero» per un parassita che non vuole fare niente. Invece di sganciare il soggetto in difficoltà dal ricatto lo si rinchiude in un ulteriore trappola che serve solo agli interessi del modello economico di riferimento del governo: il liberismo economico

Il Def non interviene su nessuna delle cause che provocano l’aumento delle disuguaglianze: tagli alle politiche sociale, politiche di austerità, lavoro povero ed a bassa intensità, politiche fiscali regressive, assenza di adeguate misure di welfare, bassi investimenti pubblici e privati in settori industriali ad alta intensità di lavoro e/o legati alla riconversione ecologica delle attività produttive. Non è nemmeno una manovra che tenta di contrastare le disuguaglianze, anzi le allarga con misure come il finto reddito di cittadinanza che altro non è che un sussidio di povertà che la istituzionalizza, rafforzando la guerra tra poveri avviata con i precedenti governi.

Così il finto reddito di cittadinanza stigmatizza chi è in difficoltà facendo passare il cosiddetto “povero” per un parassita che non vuole fare niente, a cui gli si dice come vivere immaginandolo come un essere incapace di meritare fiducia e autonomia. Se sei povero la colpa è tua. Lo Stato, come nell’ottocento, ti riconosce in quanto sfigato un sussidio e ti chiede in cambio lavoro gratuito o sottopagato, rinchiudendoti in una “trappola della povertà” che ha come unico obiettivo mostrare un miglioramento degli indici che interessano Bruxelles e la finanza, senza liberare la persona dalla sua condizione difficile e senza garantirgli dignità. L’esatto opposto di quanto stabiliscono tutti i regimi di reddito minimo garantito che seguono i principi stabiliti dalle risoluzioni europee e dalla stessa Commissione Europea: individualità, valorizzazione dell’autonomia della persona, somma commisurata sul 60% del reddito mediano, residenza e non cittadinanza, nessun obbligo di lavoro purché sia, servizi sociali di qualità, costruzione di un sistema di servizi integrato. Invece di sganciare il soggetto in difficoltà dal ricatto lo si rinchiude in un ulteriore trappola che serve solo agli interessi del modello economico di riferimento del governo: il liberismo economico.

Eppure nella scorsa legislatura 91 deputati e 35 senatori del M5S avevano sottoscritto le due principali proposte di circa 600 realtà sociali della rete dei Numeri Pari: 1) l’istituzione del reddito di dignità, sulla piattaforma di 10 punti elaborata dal BIN Italia; 2) mettere i servizi sociali fuori dal patto di stabilità per liberare risorse che consentono ai Comuni di garantire i servizi sociali. Ad essere ingannati non solo le realtà sociali, ma milioni di cittadini che si aspettano riforme capaci di migliorare la loro condizione materiale ed esistenziale. Come con la flat tax: un regalo ai ricchi ed una fregatura per quasi tutti gli altri. Il Def con una mano fa finta di dare e con le altre sette costruisce un paese più impoverito, diseguale, fragile, rancoroso, in perenne guerra contro un nemico. Senza speranza.

A conferma, non c’è traccia di una delle riforme più urgenti e richieste da anni per contrastare disuguaglianze e garantire diritti sociali: la riforma del welfare. Questione denunciata anche da Alleva in Parlamento anni fa. Siamo in presenza di un sistema di protezione sociale che da anni non è più in grado di farsi carico di chi è in difficoltà. Figurarsi adesso con una platea di 18,6 milioni di persone a rischio esclusione sociale. Un welfare sottofinanziato, a macchia di leopardo, che scarica troppo peso sulle donne. Il governo annuncia invece ulteriori tagli e politiche patriarcali, decidendo scientificamente di fomentare la guerra tra poveri. Il progetto è il passaggio dal welfare al workfare e da una società inclusiva ed aperta ad una oscurantista e classista.

È questo il punto: questa manovra viola i principi fondamentali della nostra Costituzione: dignità, uguaglianza, solidarietà e lavoro. Principi che come primo “obbligo” prevedono quello alla Solidarietà all’articolo 2. Un clamoroso ribaltamento di prospettiva, compiuto con il consenso popolare.  Da questo realtà che consegna un accresciuto consenso al governo bisogna partire, ribaltando le categorie e le logiche a cui il governo costringe il dibattito e comunica con i cosiddetti poveri. Come sul tema del Deficit e del rapporto con l’Europa.

Dobbiamo dirlo chiaramente: il problema non è fare qualche decimale in più di deficit, ma capire se abbiamo utilizzato la fiscalità generale al meglio, ed il governo non l’ha fatto. Si poteva finanziare il sussidio di povertà con la fiscalità, senza fare debito, ma non è stato fatto. Così come va ribaltata l’ultima campagna di comunicazione che vuole il governo impegnato a scontrarsi con i teorici delle politiche di austerità in Europa. Se davvero si volesse farlo, si affronterebbe il nodo del patto di stabilità messo in Costituzione e si costruirebbero alleanze con i cosiddetti paesi PIIGS e non certo con Orban. Il Def esprime pienamente e compiutamente il progetto politico di una destra nazionalista che punta all’autarchia e ad alleanze simili in Europa, non certo a combattere disuguaglianze, povertà ed austerità. Una guerra tutta interna alle destre che si stanno disputando il piano dell’egemonia.

Dare forza e fare massa critica con chi sta facendo opposizione alla manovra su proposte chiare ed efficaci ancorate ai principi costituzionali, rafforzare le alleanze sociali e mettere in campo iniziative politiche larghe e plurali, è l’unica strada che abbiamo per fare emergere il perimetro di un nuovo blocco sociale presente nel paese ma ancora privo di rappresentanza.

19 Ottobre 2018 / by / in ARTICOLI, PER APPROFONDIRE, rassegna stampa, Servizi sociali
Lotta alla povertà: si doveva e si poteva fare molto di più. E meglio

La riflessione di Libera: dopo 10 anni la realtà ci racconta di un paese sempre più debole, diseguale, fragile, impaurito e soprattutto incapace di guardare al futuro con speranza.

Sono 10 anni di fila che nel nostro paese le disuguaglianze continuano a crescere: economiche, sociali, geografiche, culturali, di genere, di reddito, di opportunità. L’aumento di disuguaglianze e povertà danneggia tutti e tutte, non solo chi ne è colpito, minando democrazia e coesione sociale nel profondo. Le forze politiche che si ispirano o che accettano il modello economiche neoliberista sostengono che sia una condizione necessaria per raggiungere gli obiettivi della crescita e dell’efficienza dei mercati. La realtà dopo 10 anni ci racconta invece di un paese sempre più debole, diseguale, fragile, impaurito e soprattutto incapace di guardare al futuro con speranza. Un paese nel quale sono le mafie, la corruzione ed il populismo a trarre il massimo beneficio dall’aumento del disagio sociale e dei bisogni. Sono le mafie ad aver aumentato il loro potere di penetrazione sociale e culturale nei luoghi e nelle periferie dove è cresciuto il disagio. In questi luoghi man mano che diminuiscono la presenza delle istituzione e delle politiche sociali, cresce la presenza criminale, il lavoro informale, la zona grigia. Se all’aumento della povertà non si risponde mettendo in campo fondi, investimenti e politiche sociali adeguate, capaci di garantire a tutti i diritti e non solo ad una piccola parte, si determinano situazioni sociali esplosive che portano ad una guerra tra poveri ed alla negazione stessa della cultura giuridica fondata sulla necessità di garantire protezione ai soggetti più deboli, a quelli svantaggiati ed alle vittime. La povertà, dunque, come una colpa ed uno stigma. Ed è quello a cui stiamo assistendo nel nostro paese.

L’odio non è mai dato, ma viene costruito. Le scelte politiche di questi anni sono responsabili dell’aumento senza precedenti della povertà economica e culturale, delle violazione sistematica dei diritti costituzionali di milioni di italiani, dell’esplosione del clima d’odio che vede nei più poveri e nei migranti i colpevoli, del rafforzamento di ideologie e forze politiche xenofobe e razziste, dell’aumento della zona grigia, della precarizzazione del lavoro, del rafforzamento di quelle culture e di quei comportamenti complici e funzionali alle mafie. Si doveva e si poteva fare molto di più e meglio. Lo diciamo chiaramente, perché se finalmente lo si capisce si possono imboccare strade diverse e invertire la rotta.

I numeri di questi anni del resto sono emblematici e fotografano una vera e propria apocalisse umanitaria. L’ultimo rapporto Istat denuncia come le persone in povertà assoluta nel nostro paese abbiano superato il numero di 5 milioni. Quelle che hanno smesso di curarsi, perché non se lo possono più permettere, sono 12 milioni. Il Censis segnala come oltre il 30% della popolazione sia a rischio esclusione sociale e 9,3 milioni di italiani siano già in povertà relativa. Se compariamo la nostra condizione a quella degli altri paesi europei, ci accorgiamo che tutti i dati sulle disuguaglianze nel nostro paese sono superiori alla media europea e sono tra i peggiori in termini assoluti. Questo dato rivela più di tutti il fallimento dell’attuale classe dirigente politica italiana che è riuscita nell’impresa di fare peggio di quasi tutte le altre in questi 10 anni di crisi. Perché si poteva fare diversamente anche in regime di austerità, ed anche in presenza di una crisi che è si globale e di sistema, ma che è stata affrontata meglio da quasi tutti gli altri paesi europei, investendo su politiche sociali e sostenendo forme di reddito minimo garantito per quanti fossero in difficoltà. Si poteva e si può ancora attraverso il nostro sistema di protezione sociale ridurre l’aumento della povertà computabile all’austerità ed alla crisi globale. Se non lo si è fatto è per scelte politiche precise e perché le priorità erano e sono altre. Basti guardare quanto speso dal governo Renzi per gli 80 euro (9,1 miliardi), per la decontribuzione fiscale sul job act (12 miliardi) e per il salvataggio delle banche (20 miliardi). Più di 40 miliardi usati attraverso la fiscalità generale che non sono andati a chi è in povertà, ne hanno rilanciato la domanda aggregata, ne i consumi delle famiglie. Ma è vero anche che grazie a queste misure i miliardari nel nostro paese sono triplicati, arrivando secondo Oxfam a 324. Questo dato spiega, qualora ce ne fosse ancora bisogno, chi ha tratto vantaggio dalla crisi e dalle scelte politiche di questi ultimi dieci anni. Per la povertà invece sono stati stanziati la miseria di 1,8 miliardi di euro che forse arrivano addirittura a 2 nei prossimi anni. L’hanno chiamato Rei, reddito di inclusione, ma siamo lontanissimi da quello che l’Europa definisce reddito minimo garantito. Il Rei raggiunge infatti solo il 38% del totale delle persone in povertà assoluta ed a queste concede una somma misera molto lontana da quanto stabilisce l’Europa nella Carta di Nizza all’art.34, che stabilisce come nessun cittadino europeo debba scendere sotto la soglia del 60% del reddito mediano procapite del paese di origine. Una soglia limite sotto la quale non scendere che indica il reddito necessario a garantire un minimo di dignità. In Italia questa misura corrisponde a circa 800 euro ed i circa 120 euro previsti dal Rei a componente familiare di un nucleo sotto i 6000 euro di Isee sono una cifra molto lontana da quanto previsto nei regimi di reddito minimo garantito europei. Senza contare l’obbligo del lavoro come condizione per il beneficiario e la scadenza di 12 mesi, rinnovabili per massimo altri 6. Obbligo di lavoro e scadenza del “diritto al reddito” che le risoluzioni europee dal 1992 non prevedono di certo, anzi stabiliscono chiaramente come il reddito minimo garantito possa essere sospeso solo quando è mutata la condizione di disagio. Altrimenti non se ne capirebbe il senso, e rimarrebbe una misura spot o peggio meramente assistenziale, come il Rei. Siamo davanti, come ci ricordano i costituzionalisti, a misure che introducono forme di universalismo selettivo che sviliscono la dignità delle persone e violano il principio di universalismo del nostro welfare.

Crescono costantemente allo stesso tempo la precarietà e forme di lavoro con bassi salari. Il lavoro non stabile è aumentato di circa 200 mila unità anche lo scorso anno. Così siamo costretti a sommare ai quasi 3 milioni di disoccupati tutti quelli che svolgono lavori con contratto a tempo, che non godono di stabilità nell’impiego o che non ricevono retribuzioni adeguate a garantire una vita dignitosa. Le persone che vivono questa condizione secondo i dati di Unimpresa sono 6,55 milioni. A fine 2017 il numero totale di persone che vivono un profondo disagio sociale è arrivato a 9,29 milioni, circa 197 mila in più rispetto al 2016. Le prospettive per chi cerca lavoro e non dispone di una famiglia ricca o di una forte rendita di posizione sono nere. Una volta se nascevi figlio di operaio finivi per fare l’operaio ed a questa situazione ci si ribellava. Oggi l’ascensore sociale è completamente bloccato e se nasci figlio di operaio con ogni probabilità non farai nemmeno quello. Secondo tutti gli istituti di indagine e ricerca siamo in presenza della popolazione giovanile più impoverita della storia della repubblica. Dopo tanta retorica sui giovani, questo dimostra come nonostante il linguaggio della politica nella realtà le scelte compiute sono andate in direzione opposta. E le prospettive, se non si cambia rotta, sono peggiori. La crescita della forme di automazione e digitalizzazione dell’economia, in assenza di un forte intervento pubblico capace di orientare e porre regole, sono destinate ad aumentare ulteriormente la precarietà lavorativa ed a ridurre i redditi ed i salari della maggior parte dei lavoratori. La cosiddetta “gig economy” , i voucher, il lavoro “on demand”, la fabbrica 4.0, algoritmi e “machine learning”, sono sempre più diffusi. Gli studi fatti su questo trend sono chiari e parlano in maniera unanime di una enorme contrazione del lavoro nei paesi occidentali. Tecnica e capitalismo sono diventati una cosa sola. Siamo dinanzi ad un gigantesco processo globale di precarizzazione, flessibilizzazione e individualizzazione del lavoro iniziato con la crisi, amplificato nel nostro paese dalle riforme come il Job Act, dalla legge sulle pensione, dai tagli al sociale, dall’istituzionalizzazione della povertà. Dobbiamo porci il tema di quanti cercheranno lavoro, non lo troveranno, non hanno altri strumenti di sostegno economico e non sono ricchi. E’ questa la situazione reale e non teorica, che abbiamo davanti. Lavoro e reddito non sono in contrapposizione, anzi. La piena occupazione non è mai stata garantita nemmeno negli anni d’oro, figuriamoci adesso. Il tema è più urgente che mai. Vogliamo o no garantire a tutti e tutte il diritto all’esistenza? Le attuali politiche in campo evidentemente no!

Per queste ragioni, ma non solo, continuiamo a proporre l’introduzione del Reddito di dignità come previsto dai pilastri sociali europei definiti a partire dal 1992 in tutta Europa. Il diritto all’esistenza deve essere garantito attraverso tre misure che la CE chiede a tutti i paesi di introdurre: il reddito minimo garantito (non condizionato a forme obbligatorie di lavoro), il diritto all’abitare, l’offerta di servizi essenziali di qualità. Tre cose che da noi mancano del tutto e che determinano l’aumento senza fine delle disuguaglianze e lo scivolamento verso linguaggi e forme della politica escludenti, classiste e razziste. Se anche nel nostro paese mettessimo al centro i pilastri sociali europei ed attuassimo quanto stabilito dalla nostra Costituzione, risolveremmo la maggior parte dei problemi, restituiremmo la dignità a milioni di cittadini, spezzeremmo il ricatto delle mafie in molti luoghi in cui sono cresciuti povertà e solitudine, rafforzeremmo la coesione sociale e la partecipazione dei cittadini alla politica, riformeremmo finalmente il nostro welfare che ha da sempre schiacciato le donne nel ruolo di cura, daremmo un forte colpo all’aria grigia che nel mondo del lavoro sfrutta le debolezze ed i bisogni di chi soffre, daremmo speranza alla generazione di giovani più impoverita della storia del paese, consentendole di investire sulla propria autonomia e formazione, arresteremmo la guerra tra poveri e erigeremmo un argine fondato sui diritti contro odio e populismi.

Giuseppe De Marzo

Responsabile nazionale di Libera per le Politiche Sociali

29 Maggio 2018 / by / in ARTICOLI, Diritto al reddito, I nostri approfondimenti, PER APPROFONDIRE, Servizi sociali
Come investono i Comuni italiani: “Milano batte Roma 11 a 1”

Da Il Sole 24 ore

La rete stradale di Milano e la Tramvia di Firenze. Sono la viabilità e i trasporti a segnare le differenze tra i bilanci dei Comuni, separando le città che provano a spingere sugli investimenti da quelle che viaggiano su una gestione “ordinaria”.

Il risultato è che i numeri dei preventivi 2018 appena approvati dalle città (la scadenza era il 31 marzo) indicano che in rapporto agli abitanti Milano batte Roma 11 a 1 nei programmi di investimento, e che le spese correnti dominano anche a Torino e Bologna. Qualche sorpresa arriva dai conti di Napoli, che stando ai programmi ha in proporzione il costo del personale più leggero fra le grandi, mentre rientra fra i fenomeni più prevedibili il dominio fiorentino nella spesa per i beni culturali o quello milanese alla voce «sviluppo economico».

I numeri dei conti
Le cifre che riempiono i grafici sono tratte dai preventivi delle città maggiori (Palermo manca all’appello perché il bilancio è in ritardo), e mettono a confronto i programmi che le amministrazioni locali hanno saputo o potuto mettere in campo in un quadro di finanza locale che finalmente ha trovato un po’ d’ordine dopo gli anni difficili dei tagli e del patto di stabilità. Certo, si tratta di progetti, e bisognerà vedere a consuntivo l’effettiva capacità di tradurre in pratica i piani e le ambizioni scritte nei conti: ma le centinaia di tabelle dei preventivi, che quasi nessuno legge nonostante la pubblicazione su Internet imposta dalle leggi sulla trasparenza, sono il cuore della politica locale perché traducono in cifre le scelte (e le eredità) delle amministrazioni. I singoli numeri dipendono da mille variabili, anche congiunturali, ma è il loro insieme a definire pesi e misure dell’attività amministrativa. E a indicare che i Comuni italiani sono molto diversi fra loro.

Spese fisse e investimenti
Il primo dato chiave è quello degli investimenti, ed è qui che il derby Roma-Milano mostra il risultato più plateale. La Capitale ha messo in programma per quest’anno una spesa da 467,5 milioni di euro, che significano 163 euro ad abitante e una flessione del 15% rispetto al preventivo dello scorso anno. A Milano la stessa casella registra 2,41 miliardi (-3,1% rispetto alle previsioni 2017), cioè 1.786 euro ad abitante: 11 volte tanto il dato capitolino. Per centrare l’obiettivo, Palazzo Marino dovrà riuscire anche a portare al traguardo l’ambizioso piano di alienazioni immobiliari che dovrebbe portare in cassa 834 milioni. Anche perché lo stock di debito già accumulato nel passato costa già 205 euro ad abitante fra interessi e quota capitale.

Una distanza di valori così stellare si spiega con la diversa struttura dei due Comuni, plasmata dal territorio (Roma è grande oltre sette volte Milano) e soprattutto con una storia che negli anni ha schiacciato il Campidoglio sotto il peso di una spesa corrente rigida e di una difficoltà amministrativa a programmare e realizzare nuove opere. Se il bilancio, complici anche i buchi nella riscossione, riesce a reggere a stento i 4,7 miliardi di spesa corrente che se ne vanno ogni 12 mesi,e che rappresentano il 91% della torta, per gli investimenti resta poco fiato. E le conseguenze pratiche si incontrano per esempio per strada, cioè alla voce «trasporti e mobilità», a cui Roma dedica 293 milioni in conto capitale contro gli 1,34 miliardi di Milano (cifra che non considera i costi della nuova linea metropolitana, la M4, che transitano per la società di scopo in cui Palazzo Marino ha i due terzi delle quote). Forte anche la spesa di Firenze, che nel 2018 registra però una gobba legata alle vicende contabili dell’investimento nella tranvia: la spesa in conto capitale di quest’anno a Firenze vola a 629 milioni, contro i 270 dell’anno scorso, ma ridiscenderà ai livelli ordinari dal 2019. A Torino, invece, gli investimenti sono tenuti bassi anche dal livello di indebitamento raggiunti dal Comune negli anni delle trasformazioni urbane e delle Olimpiadi invernali, che non lascia molto spazio a nuovi slanci.

Dove vanno i soldi locali
Ma i bilanci locali, trasformati dalla riforma contabile, dicono molto di più. L’articolazione per «missioni», cioè per i diversi settori di attività a cui vengono destinate le risorse, permette di misurare l’impegno finanziario dedicato alle ramificazioni di un ente come il Comune che entra in tutti i campi della vita dei cittadini. Anche in questo caso le cifre sono il frutto di un mix fra storia, scelte politiche e possibilità pratiche; e in rapporto alla popolazione, Milano spende più delle altre città per quasi tutte le principali missioni. A parte il capitolo «trasporti», dove pesano anche il criterio di calcolo dei costi al lordo e il fatto che la rete dell’Atm serve un hinterland fitto di Comuni chiamati a rimborsare parte della spesa (fenomeno che si vede sul lato delle entrate), Palazzo Marino è in testa in voci chiave come la gestione del territorio e l’ambiente, che contempla anche la raccolta e smaltimento dei rifiuti, fino allo sviluppo economico (servizi alle imprese, al commercio e così via) e al welfare locale. Due sono invece i primati fiorentini. Oltre a quello sui beni culturali, facile da spiegare, va segnalata la spesa per «giovani e sport», dove il capoluogo toscano batte tutte le città del Nord mentre Roma chiude con soli 4 euro ad abitante.

Dare e avere
I diversi livelli di attività si riflettono in modo diretto nei costi del personale, che a Milano sono più pesanti che altrove (471 euro a cittadino), pur essendo per quest’anno previsti in leggera discesa (-4,1%) nonostante il rinnovo dei contratti. In coda, con 325 euro, c’è Napoli, dove la cura portata dai molteplici tentativi di rientro dal rischio dissesto su cui la città balla ininterrottamente dal 2012 ha limitato organici e turn over, senza però finora riuscire a riavviare il funzionamento della macchina comunale

Del resto proprio il rapporto fra il «dare» dei costi pubblici e l’«avere» dei servizi per motivare il giudizio (e i voti) dei cittadini restano i grandi assenti nella finanza locale. Anni di cantiere su federalismo fiscale e fabbisogni standard non sono riusciti a fare luce su questo tema cruciale: ma un po’ di numeri dei bilanci possono dare una mano.

Da Il Sole 24 ore

16 Aprile 2018 / by / in ARTICOLI, rassegna stampa, Servizi sociali
È Imperativo: il welfare va rifondato – Il Fatto Quotidiano

Esce oggi presso le Edizioni del Gruppo Abele un libro nato nel percorso della sinistra iniziato al teatro Brancaccio: Indicativo futuro: le cose da fare. Materiali per una politica alternativa, a cura di Livio Pepino, con contributi di A. Algostino, A. Falcone, L. Marsili, F. Martelloni, F. Miraglia, T. Montanari, M. Pianta, C. Raimo, Y. Varoufakis, oltre a quello di Giuseppe De Marzo da cui è tratto il seguente brano.

 

L’aumento delle disuguaglianze e della povertà ha raggiunto nel nostro Paese livelli mai toccati prima. Questo indicano tutte le ricerche e le indagini, a partire dai rapporti Istat. Per la prima volta la povertà assoluta colpisce quasi 5 milioni di persone, mentre la povertà relativa investe le vite di oltre 9 milioni di italiani e italiane. Dispersione scolastica e disoccupazione giovanile sono tra le più alte d’Europa, rispettivamente al 17,6 per cento e oltre il 40 per cento. I lavoratori poveri, working poors, sono più di 4 milioni, mentre il rapporto McKinsey assegna all’Italia il record negativo assoluto tra i Paesi Ocse per l’impoverimento dell’attuale generazione, paragonato al dopo- guerra, con i giovani più poveri dei genitori e senza prospettive. L’indice Gini sulle disuguaglianze di reddito è aumentato negli ultimi 25 anni da 0,40 a 0,51, portando il nostro Paese a essere quello con l’incremento peggiore d’Europa dopo la Gran Bretagna. Resta altissimo il rischio povertà che colpisce ormai quasi un italiano su tre (28,7 per cento), con un indice di grave deprivazione materiale all’11,5 per cento. L’Istat afferma come il sistema di trasferimenti italiano, escludendo le pensioni, non sia in grado di contrastare la dinamica di costante impoverimento che colpisce soprattutto donne, minori, famiglie monoparentali, famiglie di operai, migranti già residenti. Già lo scorso anno il presidente dell’Istat, Giovanni Alleva, aveva denunciato un welfare tra i peggiori d’Europa, incapace di far fronte all’aumento delle disuguaglianze e povertà.

È la conseguenza di una politica assente sul fronte della lotta alle disuguaglianze. In questi otto anni di crisi sono state prese decisioni politiche che hanno drammaticamente peggiorato la condizione sociale dell’Italia. […]

Le politiche sociali sono ridotte al lumicino, viste come un costo e non come un investimento e un obbligo della Repubblica, previsto dalla nostra Costituzione. Il Fondo nazionale politiche sociali (Fnps) è stato tagliato dell’80 per cento, le politiche di austerità sono state addirittura introdotte in Costituzione modificando l’art. 81 per imporre il pareggio di bilancio, con il conseguente mancato trasferimento di 19 miliardi ai Comuni, come denuncia il rapporto Ifel (Istituto per la finanza e l’economia locale). […]

Tutto questo mentre nel nostro Paese la ricchezza non si è certo ridotta con la crisi, anzi. Se è vero che la povertà è triplicata, è vero anche che sono triplicati i miliardari, 342 come denuncia il rapporto Oxfam sulle disuguaglianze. Ciò signfica che, anche in regime di austerità, il nostro sistema di protezione sociale, ove adeguatamente finanziato, ripensato e non smantellato, avrebbe potuto affrontare meglio la crisi ed evitare l’esplosione della povertà. Governo e parlamento potevano e dovevano fare molto di più. Ma nonostante i dati e le ricerche comparate, il governo non ha saputo fare di meglio che introdurre il Sia, una sorta di Social
Card, stanziando appena 1,2 miliardi quest’anno e 1,7 il prossimo per contrastare la povertà. Circa 80 euro a componente familiare di nuclei che hanno meno di 3.000 euro di Isee, privilegiando le famiglie con più figli. Si tratta di una misura di universalismo selettivo che non raggiunge nemmeno un terzo della popolazione in povertà assoluta, e a quelli che ne avranno diritto non garantisce nemmeno la dignità. La voce dei diritti e della giustizia sociale nel nostro Paese è in questo momento flebile come non mai. Prenderne atto ci indica come unica strada quella di ricostruire un movimento che dal basso sappia rimetterli al centro a partire dalle vittime e dalla realtà sociali.

21 Settembre 2017 / by / in ARTICOLI, PER APPROFONDIRE, rassegna stampa, Servizi sociali
Emmaus Italia sul reddito di inclusione, i tagli alla spesa sociale e le agevolazione per i ricchi

«La solidarietà non è dare, ma agire contro le ingiustizie»

Abbé Pierre, fondatore delle comunità e  del movimento internazionale Emmaus

Le recenti decisioni del Parlamento riguardanti il contrasto alla miseria e alle disuguaglianze ci lasciano per certi versi perplessi e, per altri, ci indignano.

Se da una parte consideriamo positivo che delle risorse, tramite il Reddito di inclusione sociale, vengano stanziate per venire in soccorso a chi vive in condizioni di miseria, dall’altra vediamo anche i limiti e le lacune di un provvedimento che non ci sembra in grado di sostenere, con tali risorse, nemmeno la metà delle famiglie che vivono al di sotto della soglia di povertà e di affrontare in maniera organica il problema. Al tempo stesso assistiamo anche ad altre decisioni scandalose e ingiuste, come il taglio di circa 212 milioni di euro al Fondo nazionale per le politiche sociali e di altri 50 milioni al Fondo nazionale per la non autosufficienza; se a ciò si aggiunge la proposta di detassazione – la cosiddetta Flat tax ideata dal governo per attirare i miliardari residenti all’estero – si comprende che, come al solito, si privilegiano ancora una volta i ricchi, contando sulle ‘briciole’, sulle ‘elemosine’ derivanti dai loro patrimoni costruiti sullo sfruttamento, sui paradisi fiscali, sulla demolizione dello stato sociale.

Una delle conseguenze dirette di un tale stato di cose, che noi tocchiamo con mano, è il progressivo aumento della richiesta di accoglienza all’interno delle nostre comunità da parte di persone espulse dal mondo del lavoro e dal sistema sociale. Assistiamo al loro smarrimento e alla loro rabbia, a un crescente livello di frustrazione che spinge verso scelte di disperazione e di semplificazione: tutto ciò genera inevitabilmente un clima di conflitto che prende spesso di mira altri individui disperati, diversi per provenienza e cultura.

Ribadiamo fermamente che il principio di una società solidale e civile – presente nella nostra Costituzione – è basato sul diritto e non sull’elemosina. Senza dubbio nessuno possiede la bacchetta magica. È tuttavia evidente la necessità di invertire la rotta e di attuare politiche di inclusione a partire dal lavoro.

Il lavoro è dignità e non sfruttamento; il lavoro, come ha affermato anche don Luigi Ciotti, è un bene comune e un diritto universale che non deve essere piegato alle logiche del mercato gestito da pochi potenti della finanza.

Insieme alla Rete dei numeri pari chiediamo inoltre la revisione dell’articolo 81 della Costituzione sul pareggio di bilancio, in modo da sganciare le risorse destinate al sistema sociale dal patto di stabilità, e che venga discusso e approvato il Reddito di dignità.

Franco Monnicchi

Presidente di Emmaus Italia

13 Marzo 2017 / by / in ARTICOLI, Diritto al reddito, PER APPROFONDIRE, Servizi sociali
Confermato il maxi-taglio alle politiche sociali e al fondo per la non autosufficienza

di Roberto Ciccarelli 

Austerità. Il Fondo Politiche sociali perderà oltre 200 milioni, 50 in meno alla non auto-sufficienza. Saranno colpiti asili nido, centri anti-violenza, assistenza domiciliare, sostegno ai disabili e agli anziani. E oggi il Senato approverà una legge contro la povertà che esclude sette cittadini su dieci

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Mentre il ministro del lavoro e del Welfare Giuliano Poletti definisce «uno strumento universale» la legge contro la povertà che esclude sette poveri assoluti su dieci che sarà approvata oggi dal Senato, in un question time alla Camera ieri il ministro per gli affari regionali Enrico Costa ha confermato il taglio di 211 milioni di euro al fondo delle politiche sociali (ridotto da 311 a 99 milioni) e di 50 milioni a quello sulle non autosufficienze (450 da 500). In questo modo il governo colpirà gli asili nido, le famiglie in difficoltà, i centri antiviolenza, l’assistenza domiciliare e il sostegno a disabili e anziani.

La decisione è stata presa dalle regioni e dal ministero dell’Economia ed è stata confermata nei giorni scorsi dal sottosegretario al lavoro Luigi Bobba in risposta a un’interrogazione di Donata Lenzi (Pd). «Un atto gravissimo» avevano denunciato il forum del terzo settore, la Federazione italiana superamento handicap (Fish) e la federazione delle associazioni nazionali sulla disabilità (Fand). «È la definitiva cancellazione del disagio sociale dall’agenda politica – attacca Gianmario Gazzi, presidente del consiglio nazionale degli assistenti sociali – Una mossa inqualificabile, tutta monetaria e frutto delle alchimie di bilancio. Un ultimo pessimo regalo fatto proprio l’8 marzo nella festa delle donne. Saranno proprio le donne a pagare il prezzo più alto di una crisi economica che porta per loro disoccupazione e precariato. Sulle loro spalle si scaricherà il ruolo di supplenza delle istituzioni in termini di welfare familiare reso più gravoso dall’assenza di una rete di servizi».

«Un teatrino ridicolo e vile». Così i deputati del movimento 5 Stelle hanno definito la condotta omissiva e imbarazzata degli esponenti del governo incalzati nelle ultime due settimane dalle associazioni, a se guito dell’intesa Stato-regioni che ha stabilito il taglio. «Solo la scorsa settimana – sostiene M5S – Bobba si era detto assolutamente contrario ai tagli. Il Mef però li ha approvati. Ed è partito lo scaricabarile. Il governo non ha niente da dire anche sul taglio da 422 milioni al fondo sanitario nazionale». «Non c’è che dire, un gran regalo per l’8 marzo – sostiene Nicola Fratoianni, segretario di Sinistra Italiana – e per chi è costretto al lavoro di cura familiare o ha bisogno di conciliare il lavoro con la famiglia. Le statistiche sul disastro sociale del paese evidentemente non le leggono».

Costa ha provato a giustificare una situazione imbarazzante per il governo nel giorno dello sciopero delle donne e a poche ore dall’approvazione del poco più che simbolico provvedimento contro la povertà. «Il fondo per le non autosufficienze per il 2017 è comunque superiore alle risorse stanziate nel 2016, malgrado la riduzione di 50 milioni». Una posizione che non giustifica la marcia indietro su un fondo che era stato incrementato con 50 milioni dalla legge di stabilità e di altrettanti dal decreto legge di fine anno sul Mezzogiorno.

Il taglio al fondo sociale è drammatico. L’accanimento dei vari governi dal 2004 a oggi è evidente. Tredici anni fa il finanziamento ammontava a 1.884 miliardi di euro. Nel 2012 era stato tagliato al punto da arrivare a 43,7 milioni per poi risalire nel 2013 a 344 milioni. Nel 2015 lo si è reso «strutturale» con una dotazione annua di 300 milioni. Oggi, nel pieno di una crisi più dura di sempre, è stato di nuovo tagliato a 99 milioni, il 5% rispetto al fondo disponibile nel 2004.

 

https://ilmanifesto.it/confermato-il-maxi-taglio-alle-politiche-sociali-e-al-fondo-non-autosufficienza/

9 Marzo 2017 / by / in ARTICOLI, PER APPROFONDIRE, rassegna stampa, Servizi sociali